L’incredibile tendenza a fare dell’Occidente un sinonimo degli Usa Sarei tentato di confessare la più infamante delle colpe che si possono imputare in questa stagione: l’antiamericanismo. Ma sarebbe una forzatura, un vezzo vittimista, quasi una civetteria. In verità non coltivo sentimenti antiamericani. Più semplicemente vorrei rivendicare il diritto-dovere di comprendere cosa esso significhi in concreto e, perché no, anche quello di isolare profili del modello Usa – salvo intendersi su ciò di cui parliamo – che effettivamente non entusiasmano me come tanti altri ; specie in rapporto al paradigma europeo nel quale più agevolmente mi riconosco.
È ancora un esercizio lecito o è una bestemmia? Mi limito a quattro profili. Primo: sino a ieri era quasi un luogo comune rivendicare la peculiarità virtuosa del modello sociale europeo a paragone del mercatismo nordamericano e dell’esasperazione della ideologia meritocratica cui non è estranea la tradizione protestante. Si veda la requisitoria di Michael Sandel, della quale 'Avvenire' ha dato ampio conto, contro la «tirannia del merito» misurato sul parametro del successo e del denaro. Romano Prodi usa sostenere che il welfare è la più grande conquista tipicamente europea del Novecento. Secondo: il versante geopolitico. Di nuovo: sino a ieri, gli europeisti amavano rappresentare il nostro continente e le istituzioni comunitarie come «potenza gentile» (cfr. Tommaso Padoa Schioppa) più incline al soft power che non all’hard power.
Quantomeno a valle delle infelici avventure coloniali condotte da vari Paesi europei. Terzo: il modello politico-istituzionale. Dopo l’assalto a Capitol Hill e lo spettacolo di un’America tuttora tanto divisa mi pare si siano sensibilmente assottigliate le fila di chi vorrebbe adottare la ricetta del presidenzialismo Usa. Una verticalizzazione del potere che si è tradotta in una lacerante spaccatura. Meglio ispirarsi alle pur diverse ma più equilibrate esperienze politico-istituzionali europee – certo da adeguare e razionalizzare – contrassegnate da un potere politico meno concentrato e da una contesa meno verticalizzata e divisiva. Infine, l’american way of life, lo stile e gli obiettivi di vita all’americana. Qualcuno, nella discussione sulla guerra, ha evocato la dialettica tra Alcide De Gasperi e Giuseppe Dossetti sul Patto Atlantico facendone la caricatura.
De Gasperi fu indubbiamente atlantista (come poteva non esserlo in quel contesto, alla guida di un Paese sconfitto e soccorso dagli Usa?), ma fu anche padre dell’Europa. Se proprio lo si vuole tirare in ballo, meriterebbe chiedersi se, nella presente congiuntura, scorgerebbe un autonomo protagonismo europeo. Vero è che Dossetti, che pure votò la ratifica di quel Patto, nutriva una preoccupazione e cioè che, a valle di quell’alleanza politico-mi-litare, l’Italia importasse acriticamente valori e modelli di vita e di consumo americani, nonché una secolarizzazione della mentalità e dei costumi ispirata a un individualismo massificante.
Era una mera nostalgia passatista o una intuizione lungimirante? Mi verrebbe da rovesciare l’accusa in voga in queste ore: a essere svanita non è piuttosto l’ambizione a custodire e inverare una differenza, anzi due, quelle allora coltivate da cattolici e sinistra, con la resa al TINA ( there is no alternative non ci sono alternative)? In particolare impressiona una sinistra che, d’un canto, è passata dal 'legame di ferro' con Mosca a quello con Washington. Davvero è imperdonabile che ci si senta più europei che americani e, perché no, italiani e mediterranei, vocati alla mediazione e alla convivenza pacifica piuttosto che alle guerre? Eccepire su una visione mitica e indifferenziata dell’Occidente (quante diverse cose sotto il suo cielo!) e rammentare la differenza di statuto e di missione tra Nato e Ue è sinonimo di collusione con l’autocrate Putin? Possibile che la temperie generata dalla guerra condanni a semplificazioni tanto drastiche e a inibire ogni civile discussione?