Esistono storie in grado di capovolgere il mondo, di polverizzare il passato per lasciare spazio a un futuro possibile, pieno di speranza. Spesso sono storie piccolissime, che nascono ed esplodono nei quartieri delle nostre città, delle nostre vite. Questa storia parte dal sacrificio più grande: la vita di un bambino. Una vita che nel momento della sua perdita diventa sacra, capace di annullare distanze culturali e religiose, perché quando l’amore è incarnato, quando diventa amicizia, gioco, divertimento, non esiste distanza che tenga.
Roma. Quartiere Monteverde. Shjmanto aveva 9 anni, era nato a Roma mentre i suoi genitori venivano dal Bangladesh, un bambino inserito perfettamente nel tessuto del quartiere, nella scuola elementare che frequentava con buoni risultati, pieno di amici e di gioia da condividere. Un male terribile ha fatto irruzione nella sua vita, consumandolo un poco alla volta, sino alla morte, avvenuta all’inizio di febbraio.
L’intero quartiere ha seguito la vicenda di Shjmanto, sperando e pregando, sino al finale tragico, che nessuno avrebbe mai voluto. La famiglia del piccolo, di religione musulmana, ha organizzato il rito funebre nei locali dell’Associazione culturale islamica di Circonvallazione Gianicolense. È qui che accade l’evento inatteso, che la vita di Shjmanto, nel momento della sua dipartita, diventa seme di novità per tanti, potenzialmente per tutti.
I responsabili della comunità islamica hanno organizzato il rito come di norma, ma non potevano prevedere la portata di tutto l’amore che Shjmanto aveva piantato attorno a sé. La mattina del rito funebre, fuori dai locali della comunità si sono ritrovati tutti quelli che hanno conosciuto il bambino: genitori e compagni di scuola, maestre, semplici cittadini del quartiere, riuniti per fare un ultimo saluto a lui e per stringersi stretti attorno alla sua famiglia. Di fronte a quella testimonianza d’amore, i responsabili dell’Associazione islamica hanno risposto con uguale amore, e libertà: hanno aperto le porte della piccola moschea a tutti, anche a donne e bambini.
Tutti assieme. Due comunità, una islamica l’altra cristiana, unite nella preghiera, ognuno con le sue parole, con i suoi riti. Unite da Shjmanto, perché il dolore non fa differenze, come il pianto, come la preghiera che vive dentro lingue diverse, ma che, quando sincera, spiana la strada tra l’uomo e Dio. L’unico Dio che veglia il mondo intero. I miracoli accadono senza clamore, spesso vengono confusi per altro, rimpiccioliti sino a perdere la loro reale grandezza, non esplodono sui giornali, non chiedono telecamere.
Quello di Shjmanto è un miracolo. Miracolo di Dio attraverso gli uomini quando avverano per intero l’amore di cui sono capaci. La storia di Shjmanto dovrebbe avere la risonanza che merita, dovrebbe essere tradotta in tutte le lingue del mondo, insegnata dentro le scuole di ogni ordine e grado. Il primo capitolo di una nuova scrittura, sacra per tutti, dove ognuno può ritrovare se stesso e ciò che ama. La storia di Shjmanto, bambino, piccolo uomo che un giorno cominciò a scrivere il destino di tutti.