Non c’è posto per sostituti presuntuosi, né per asettici portavoce. Non siamo successori di Gesù Cristo, come se fossimo al posto di uno che non c’è più. Non c’è un vuoto di presenza che dobbiamo riempire: al contrario, c’è una pienezza di azione del Signore che dobbiamo scrupolosamente servire. Vale per il Papa come per i semplici sacerdoti, che consegnano lealmente e lietamente la propria vita, perché Egli se ne serva. È con questo che dobbiamo immedesimarci, ed è in nome di questo che abbiamo un sacrosanto titolo di rappresentanza del Signore. Non è un progetto di autorealizzazione, che si accredita mediante la religione. È un lavoro di molatura, che scava nell’anima e nella carne, fino a farci diventare "trasparenti". Niente più di questo, niente meno di questo. Verità elementare del sacerdozio, che non è tuttavia inopportuno rimettere sul proprio asse. Benedetto XVI l’ha enunciata ieri nella sua nettezza, spiegandone il senso in modo molto diretto. La formula solenne della dogmatica cristiana e cattolica, secondo la quale il sacerdote agisce in persona Christi Capitis, gli assegna la funzione di rappresentare il Signore, che insegna, santifica e governa la comunità dei credenti. Nell’uso più comune, esplicita il Papa, «rappresentare» indica il fatto di «ricevere una delega da una persona per essere presente al suo posto, parlare e agire al suo posto, perché colui che è rappresentato è assente dall’azione concreta». E prosegue: «Il sacerdote rappresenta il Signore allo stesso modo? La risposta è no, perché nella Chiesa Cristo non è mai assente, la Chiesa è il suo corpo vivo e il Capo della Chiesa è lui, presente e operante in essa». I Vangeli – non un trattato filosofico – ci istruiscono sul modo in cui Gesù lo fa, per filo e per segno. La rappresentanza di Uno "che c’è" significa mostrarlo e indicarlo. Il ministero ecclesiale può e deve dunque restituire ognuno dei suoi interlocutori alla parola e all’azione del Signore medesimo. Lo puoi fare solo se sei tu stesso un ascoltatore scrupoloso e profondo, se sei un servitore affidabile e appassionato. Il Papa cita Agostino: «Quanto distribuiamo a voi non è cosa nostra, ma lo tiriamo fuori dalla sua dispensa. E anche noi viviamo di essa, perché siamo servi come voi». Il sacerdote «non parla da sé» e «non parla per sé». Parla per conto della Chiesa. E quando parla per conto della Chiesa, lo si capisce dal fatto che ci restituisce alla parola e all’azione del Signore. Dobbiamo sottolineare l’urgenza cruciale di questa trasparenza – e del suo coraggioso azzardo? Sì. L’evidenza elementare di questo rigore della rappresentanza svuota il fraintendimento del ministero della Chiesa. Riporta in primo piano la sola cosa realmente necessaria: il servizio alla Verità di una promessa che è destinata per ogni creatura. «Viviamo in una grande confusione circa le scelte fondamentali della nostra vita e gli interrogativi su che cosa sia il mondo», dice il Papa. Una sfida forte, non una questione di aggiustamenti. Il sacerdote deve esporsi con fermezza e per primo, a favore dei terzi – di quelli che gli sono affidati e di tutti quelli che cercano affidamento – al crogiuolo di questo effetto di smarrimento, riconvertendosi fermamente, lui stesso, alla giustizia dell’essenziale. Per il presente di questo mondo occidentale, e per il futuro del cristianesimo che l’ha nutrito, la fermezza e la trasparenza del ministero ecclesiale sono una discriminante decisiva. In un mondo che affoga nel narcisismo, solo in virtù di uomini che non cercano la propria vita, molti potranno di nuovo sperare di ritrovarla.