La sentenza della Corte di Giustizia della Ue che legittima il divieto, sui luoghi di lavoro, d’indossare simboli religiosi, siano essi il velo islamico, la stella di Davide, il crocifisso o altri segni analoghi, riapre il contenzioso su un tema assai discusso, che forse in una società liberale non dovrebbe neanche esistere. In uno specifico passaggio, la sentenza afferma che il divieto non deve essere adottato per soddisfare clienti che desiderano evitare chi indossa il velo islamico; ma tranne questa ipotesi, un po’ astratta, si giustifica poi il divieto generale perché «è legittima la volontà di un datore di lavoro di mostrare ai suoi clienti, sia pubblici che privati, un’immagine di neutralità». È opportuno premettere, per evitare un equivoco frequente, che la controversia riguarda il velo islamico, che copre solo il capo e non ha nulla a che vedere con il niqab, che nasconde il volto, o il burqa che copre tutta la persona. È evidente che, in questi casi, emergono questioni diverse che riguardano l’identificazione della persona, la sua relazionalità con gli altri, e nello sfondo la stessa tutela della dignità della persona che viene quasi nascosta nell’ambiente in cui si trova. Così, com’è opportuna la regolamentazione della neutralità dei pubblici funzionari, secondo regole di sobrietà e di saggezza.
Con la questione del velo islamico rientriamo, invece, nella problematica dei simboli religiosi, per i quali l’Europa, da sempre ricchissima di simbologie le più diverse, dimostra intelligenza e tolleranza, e ci muoviamo nell’orizzonte della tutela della sensibilità e della libertà religiosa. Il divieto ha radici in una malformazione della tradizione separatista europea, in particolare di quella francese, legata a una concezione dogmatica della laïcité che ha assunto il significato di un supremo valore repubblicano. Come già ricordato più volte e anche ieri su 'Avvenire', l’avversione ai simboli ha provocato in Francia esiti paradossali, e s’è giunti al punto di proibirli a scuola, nelle gite scolastiche, ai genitori che accompagnano, o ritirano, i bambini da scuola. L’insegnamento scolastico è stato a tal punto privato di contenuti religiosi, che un Rapporto commissionato dal Governo (1989), e steso da Philippe Joutard, ha denunciato l’ignoranza di ragazze e ragazzi su aspetti centrali della storia dell’arte, della cultura. Visitando il Louvre, dice Joutard, molti giovani hanno chiesto alle insegnanti chi fossero tutte quelle Babysitter con il bambino in braccio che figurano nelle grandi opere dell’arte figurativa; oppure, davanti a San Sebastiano del Mantegna nella posa classica del martirio, hanno creduto che le frecce che lo colpiscono provenissero dagli Indiani d’America. Sembra uno scherzo, è una cosa tremendamente seria. E di recente, s’è superata la soglia del ridicolo, proibendo agli sportivi di farsi il segno della Croce, o di compiere altro atto religioso, entrando in un campo di calcio, o dopo aver segnato un gol.
Più di recente, di fronte alla reazione popolare contro la proibizione di esporre pubblicamente dei presepi, il Consiglio di Stato francese ha dettato regole generali che riflettono l’imbarazzo di un ordinamento che vorrebbe liberarsi da pregiudizi del passato, ma finisce per rimanerne prigioniero. Il massimo organo giurisdizionale richiama i principi della laïcité, propri della Loi de séparation del 1905, e afferma che la raffigurazione del Natale è parte integrante della iconografia cristiana e riflette quindi un carattere religioso, però è anche parte di decorazioni che accompagnano tradizionalmente le feste di fine d’anno. Di qui, la conclusione per la quale in linea di principio non è consentito esporre presepi in edifici pubblici, a meno che esso abbia carattere culturale, artistico o festivo. In altri spazi pubblici, invece, con riguardo alle feste di fine anno, si può esporre il presepio purché esso non rappresenti un atto di proselitismo o di rivendicazione di una specifica opinione religiosa. Chiunque vede che è impossibile tracciare una ragionevole linea di confine tra i due significati della Natività.
In un’ampia ricerca, che il professor Stefano Testa Bappenheim sta conducendo sulla questione dei simboli religiosi nell’area occidentale, si rileva che le tendenze francesizzanti ottengono qua e là qualche successo, ma più spesso prevalgono saggezza ed equità. Alcuni Paesi europei sono tradizionalmente più aperti e tolleranti: ad esempio la Gran Bretagna, ove il Turbante dei Sikh è ammesso quasi ovunque nei posti di lavoro; e l’Italia, dove non esistono veri divieti per i simboli religiosi, che ha ottenuto nel 2011, a vantaggio dell’Europa intera, il riconoscimento della legittimità della presenza del Crocifisso nelle aule scolastiche da parte della Grande Chambre di Strasburgo. Ma anche negli Stati Uniti, oltre alla celebre sentenza della Corte Suprema del 1984 per la quale «sarebbe ironico» se si volesse considerare la presenza del presepio negli spazi pubblici come contraddittorio con il principio di laicità, dal momento «nei luoghi pubblici (americani) si cantano gli inni natalizi, il Congresso e il legislativo statale aprono le sessioni pubbliche recitando la preghiera»: una simile pretesa sarebbe «esagerata e contraria alla storia della Nazione e alle decisioni di questa Corte». E sempre negli Usa, nel 2014 due dipendenti di religione musulmana dell’azienda dei trasporti di New York, colpite da sanzioni disciplinari per aver indossato il velo, hanno ottenuto soddisfazione dalla New York Eastern District Court che ha condannato l’azienda a un forte risarcimento.
Oggi la questione dei simboli religiosi da indossare, o da esporre negli spazi pubblici, ha una sua specificità, e riguarda insieme la tradizione, le radici culturali delle popolazioni, la libertà religiosa individuale. Pensiamo per un attimo a cosa significherebbe l’oscuramento dei simboli religiosi nei luoghi di lavoro, e negli spazi pubblici delle società globalizzate. Esso ci ricondurrebbe a un mesto provincialismo, ci farebbe perdere quell’ispirazione universalista che è propria delle società liberali, quella capacità di parlare agli altri, che ci ha reso attivi a livello planetario. Immaginiamo di eliminare la simbologia religiosa in ogni continente, abbattiamo in Asia le statue di Buddha, i segni dell’induismo, spegniamo in America Latina i simboli delle sue tradizioni, in Occidente i segni ebraico-cristiani, Dieci Comandamenti, Bibbia, Croce. Pensiamoci, compiremmo il più ottuso atto di oscuramento religioso e culturale che si possa immaginare contro le radici e tradizioni cui s’ispira ciascun popolo. Forse è proprio questo che non c’è nella sentenza della Corte di Giustizia: quel respiro universale di accoglienza che garantisce la libertà di pensiero, d’espressione, di religione, sempre più necessarie alle società della globalizzazione, nelle quali i popoli s’incontrano, si conoscono e rispettano, nelle leggi e nel costume, le idee, la fede, le tradizioni degli altri. Anche con questi ideali è nata l’Europa, con le sue radici cristiane e liberali. Senza di essi può solo declinare.