L’ultimo film di Christian De Sica ha incassato tre milioni di euro in un solo giorno, e a Roma è proiettato in oltre la metà delle sale. Un film volgare? Al Corriere l’attore risponde che i film d’autore fanno incassi penosi, e che un film di Natale come il suo è «lo specchio dell’Italia» di oggi. Al di là della vicenda particolare, l’affermazione colpisce. Per prima cosa, perché occorre riconoscere che c’è del vero. Gli ammiccamenti, le parolacce di un film di grande cassetta non sono in realtà peggiori di quanto si sente all’uscita di una qualunque scuola, o in un talk show televisivo. È vero, c’è un involgarimento collettivo che è prima che nelle parole nello sguardo, nella morbosità con cui per esempio si scrive, e si legge, dei vizi altrui, spiati con avidità. Quasi un compiacimento nell’indugiare su ciò che è greve; il gusto di un cinismo sorridente che ama i doppi sensi, l’ammiccamento, in un sottintendere che così fan tutti, e chi non ci sta è un illuso. Certo, quello «specchio d’Italia» manca di tante cose silenziose che raramente passano in tv: affetti, lavoro, solidarietà, carità, individuali coscienze che resistono a questo imbarbarimento collettivo. E tuttavia non si può negare che tra l’Italia del dopoguerra e questa c’è un tale salto di costume e linguaggio, che chi è vecchio, e ricorda, ne è spaesato. Ma quel dire che così è l’Italia, sottintendendo che dunque bisogna darle ciò che le somiglia, colpisce anche per una tristezza che ne viene. La volgarità vende, dunque si va incontro alla richiesta del mercato. Senonché quel mercato siamo noi, un Paese, i nostri figli. A cui vorremmo lasciare qualcosa di meglio che le battute dei cinepanettoni. Perché dietro a quelle risate c’è ben poco. Perché andiamo al cinema o accendiamo la tv per distrarci, la sera; ma anche con la magari non riconosciuta attesa di vedere qualcosa che ci dia una speranza. Di riconoscere, perfino fra le righe di una storia dolorosa o terribile, un senso buono, che valga anche per noi. Le fiabe che si raccontano ai bambini hanno sempre un lieto fine – e se non ce l’hanno, i bambini ci restano malissimo. Siamo un po’ bambini anche noi. In un film, in un libro, magari accanto al realismo più crudo, vorremmo trovare almeno qualcosa di bello, o una faccia buona. Per non uscire più sfiduciati di quanto eravamo prima. E dunque, può essere che in molti siamo come gli italiani allegrotti dei cinepanettoni. Però, se ci raccontassero ogni tanto qualcosa di bello. Non agiografie, o buonismi. Se ci venisse mostrata una bellezza: qualcosa che appassiona e sveglia una tensione, una domanda. Incontrando gli artisti un mese fa Benedetto XVI ha ricordato Platone: secondo il quale la funzione essenziale della bellezza « consiste nel comunicare all’uomo una salutare scossa che lo fa uscire da se stesso, lo strappa alla rassegnazione». La bellezza risveglia, e mette in moto. Come in un bellissimo film di tre anni fa, ' Le vite degli altri' di Florian Henckel von Donnersmarck, dove un agente della polizia segreta della Ddr passa i suoi giorni a spiare e intercettare dei sospetti dissidenti. Ma proprio le loro speranze e la loro tensione lo contagiano. L’agente non li denuncia, e abbandona il suo lavoro di aguzzino. Si sarebbe ben potuto fare un film semplicemente sulla crudeltà degli uomini della Stasi. Sarebbe stato realista. Ma la storia della spia commossa dalla bellezza è ancora più realista: è la realtà, attraversata da una speranza. Ciò che in fondo tutti domandiamo. ( E quanto a successo non è andata male: Oscar per il miglior film straniero. La bellezza, gli uomini la riconoscono ancora).