Il leader supremo della rivoluzione, l’ayatollah Khamenei, aveva promesso un «pugno in faccia all’Occidente», secondo l’usurata retorica rivoluzionaria a lui tanto cara. E ieri, puntualmente, un gruppo di basiji in abiti civili ha inscenato un attacco all’ambasciata italiana. S’è visto tante volte in questi anni a Teheran, secondo un canovaccio prestabilito: proteste "spontanee" di cittadini – in realtà si tratta per lo più di membri delle milizie radicali – fermati poi dalla polizia iraniana, a segnalare la disapprovazione o la rabbia del regime verso un singolo Stato o verso tutta la comunità internazionale. L’Italia, dopo le dure dichiarazioni di Silvio Berlusconi contro il presidente Ahmadinejad rilasciate in Israele, con il sovrappiù della difesa – acritica – dei passati bombardamenti israeliani su Gaza, ha rappresentato un bersaglio ideale.Inutile drammatizzare più di tanto l’evento, che testimonia tuttavia il deterioramento dei rapporti politici fra i nostri due Paesi: per anni il governo iraniano ha considerato Roma come una delle capitali meno ostili e più attente alle preoccupazioni e alle aspirazioni della Repubblica islamica. Ora siamo al lancio delle pietre. Ma a pesare come macigni, ben più dei sassi scagliati dai dimostranti, sono le scelte compiute in questi anni da Teheran. O meglio, decise e imposte dalla fazione ultraradicale della divisa élite politica iraniana, la quale ha deformato i meccanismi di potere interni, con la manipolazione delle elezioni, gli arresti, le minacce e le uccisioni di chi si oppone alle visioni dogmatiche e intolleranti di Ahmadinejad. Con la repressione brutale delle proteste popolari interne – quelle sì spontanee – di questi mesi. Con una politica estera aggressiva a livello regionale. E con l’esasperante ambiguità nelle trattative sul nucleare.Da mesi l’Iran manda segnali contrastanti: riafferma la propria volontà di trovare un accordo che tranquillizzi l’Occidente e nel contempo rifiuta le proposte di compromesso, concilianti e oggettivamente favorevoli a Teheran, avanzate con l’avallo dell’Amministrazione Obama.La decisione di alzare ulteriormente la sfida, arricchendo alcune sue scorte di uranio debolmente arricchito dal 4% fino al 20%, pone la comunità internazionale dinanzi a scelte non più rinviabili. Tecnicamente, la mossa è motivata con la necessità di alimentare il reattore di ricerca di Teheran (che appunto abbisogna di uranio al 20%), ma spinge ancora in avanti il «limite invalicabile» – e sempre calpestato – oltre al quale sarebbero potute scattare le reazioni statunitensi o israeliane. La verità, secondo molti analisti, è che nessuno può più fermare l’Iran dall’avere la sua «bomba potenziale»: magari non la costruirà effettivamente e non arriverà a un test nucleare militare, ma il Paese ha tutti gli elementi per farlo. Come si dice nei circoli politici di Washington, «bisogna ragionare in un’ottica di contenimento e non più di non-proliferazione».Nell’attuale contesto internazionale, le minacce di nuove sanzioni, devono fare i conti con i distinguo russi e cinesi, e non sembrano spaventare più di tanto l’Iran. Le troppe debolezze occidentali – dalla crisi economica alla guerra in Afghanistan fino ai continui focolai di crisi mediorientali – rendono protervo il regime e sembrano celare i costi economici e politici del suo avventurismo.È tuttavia tempo di dare segnali: l’11 febbraio, l’Italia non parteciperà alle cerimonie del regime per celebrare la vittoria della rivoluzione sullo scià. È auspicabile che tutti i Paesi dell’Unione europea facciano altrettanto. Non si tratta solo di solidarietà continentale: nella Teheran insanguinata dai troppi morti di questi mesi, con le prigioni stipate di dissidenti e le milizie dei pasdaran e dei basiji sempre più arroganti, c’è ben poco da festeggiare.