«Ciao amore» dice la ragazza al telefono, ma capisci che parla a un’amica. Nel suo personalissimo vocabolario la rabbia si confonde con l’odio, lo sconforto diventa disperazione, allegria significa gioia. Osservarla chiacchierare è un modo per domandarci che importanza diamo alle parole, quali sono i vocaboli cui affidiamo il compito di raccontarci, da chi e come vogliamo difenderci. Perché in fondo vivere è anche una questione di termini, della sincerità dei nostri discorsi, dei punti cardinali cui chiediamo di orientarci, minuscole stelle polari di un cammino che ricomincia ogni giorno, che ha come meta la felicità. Sempre che sappiamo cosa significhi. Per tanti, per quasi tutti verrebbe voglia di dire, essere felici è sinonimo di successo, di libertà, di potere. Il cristiano non fa eccezione, con la differenza che, letti alla luce del Vangelo, gli stessi concetti hanno significati profondamente diversi. Così, potere vuol dire servizio, libertà è svuotarsi delle proprie certezze per lasciare posto a Dio e il prestigio lo si conquista accanto agli ultimi, lontano dalle luci dei riflettori.Detto in altro modo, la croce è sinonimo di gloria, per essere grandi bisogna diventare piccoli, il successo si veste sempre di umiltà e misericordia. Lo ha ricordato il Papa all’Angelus di domenica scorsa: la tentazione più insidiosa che attanaglia l’uomo, quella che in fondo le riassume tutte, «consiste sempre nello strumentalizzare Dio per i propri interessi, dando più importanza al successo o ai beni materiali». Perché il tentatore non spinge direttamente verso il male, ma nella direzione del falso bene, facendo credere «che le vere realtà sono il potere e ciò che soddisfa i bisogni primari». Il nemico da combattere, il rischio da affrontare, allora è mettere Dio in un angolo, relegandolo al ruolo di servitore della nostra vanità, affidando al nostro egoismo il compito di decidere cosa sia meglio anche per gli altri. Nei momenti decisivi della vita, ricorda Benedetto XVI, ma forse sarebbe più giusto dire in ogni istante dell’esistenza, siamo chiamati a scegliere tra il Signore e il nostro “io”, tra l’interesse individuale e il vero bene, quello che si scrive con la b maiuscola e vuol dire carità evangelica, amore disinteressato.Sarebbe, però, sbagliato leggere in queste parole una condanna del potere e di chi lo esercita, perché in ogni ambito c’è bisogno di un’equa distribuzione dei compiti e per la costruzione di una casa servono l’operaio come l’ingegnere, l’architetto come l’imbianchino. Il Signore non è venuto a condannare il ruolo, ma l’idolatria in cui può trasformarsi, il ventilato bene comune che diventa egoismo privato, l’etica della responsabilità banalizzata in sterile culto di sé. Rischi in cui può cadere chi si affida soltanto alle proprie forze.Non a caso per respingere il tentatore Gesù si ritira nel deserto, che è il luogo del silenzio e della povertà, dove l’uomo è spinto ad andare all’essenziale, bisognoso com’è di tutto. Si tratta di capire che non siamo gli unici costruttori della nostra esistenza e che da soli non riusciamo a procurarci neppure l’acqua. Ma per comprenderlo c’è bisogno di mettere a tacere ogni certezza, serve il coraggio di avventurarsi nei «deserti», nelle «prove» che prima o poi attraversano ogni vita. Forse la più difficile è vedersi rifiutati, sentirsi fuori tempo e fuori moda, retrocessi a comprimari mentre ci crediamo i numeri uno. Eppure paradossalmente è proprio in quegli istanti che dovremmo sentirci più forti, sempre che la nostra tristezza ci spinga ad alzare gli occhi al cielo e ad aprire le porte del cuore all’aiuto che viene dall’alto. Ma succede, può succedere, solo se potere significa servizio, se amore è sinonimo di dono, se l’altro non è un avversario da sconfiggere ma un compagno di viaggio, lungo il pellegrinaggio della nostra vita.