Il sindacato lo avverte come una minaccia, gli imprenditori ne temono costi e rigidità, ai partiti invece piace molto, tanto da puntarci con decisione con cinque proposte di legge depositate, due già all’esame del Senato, dove sono in corso le audizioni e settimana prossima il comitato ristretto deciderà se partire con la discussione dalla proposta della maggioranza o provare a fare sintesi con un testo base condiviso. L’istituzione di un salario minimo legale anche in Italia è riemersa così, come un fiume carsico, nella discussione politica.
Affacciatosi inizialmente con il progetto di Jobs Act nel 2014, la proposta si era poi inabissata a causa della contrarietà delle parti sociali, per ritornare in superficie alla vigilia delle ultime elezioni politiche nei programmi di diversi partiti: dal Pd a Fratelli d’Italia, dal Movimento 5 stelle a Liberi e uguali, approdando infine nel contratto di governo, firmato anche dalla Lega, che lo prevede esplicitamente. In teoria, dunque, tra Camera e Senato non dovrebbe volerci molto per arrivare ad approvare un testo largamente condiviso perché – critiche delle organizzazioni sociali a parte – solo Forza Italia è contraria al principio, mentre tutti gli altri partiti concordano sulla sua istituzione, anche se non mancano i distinguo sulla quantificazione, le modalità di calcolo e l’eventuale organismo chiamato a quantificarlo. La proposta di M5s, sulla quale non si sono registrate obiezioni da parte della Lega, prevede 9 euro l’ora lordi come compenso minimo; il Pd ha rilanciato la sua idea iniziale, elevando però l’importo a 9 euro netti. Più basse, fissate al 50% del salario medio, quindi circa 7 euro, le proposte di Fdi e Leu che prevedono anche una specie di nuove “gabbie salariali” collegate ai livelli di produttività e di occupazione molto differenti nei vari territori. Ed è interessante che siano proprio le proposte di Liberi e uguali e Fratelli d’Italia ad essere le più realistiche e vicine al mercato.
La retribuzione oraria minima fissata per legge esiste in 22 dei 28 Paesi dell’Unione europea. Ne sono privi, oltre all’Italia, solo Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia e Svezia. L’ultima ad averla introdotta è stata la Germania nel 2015 a 8,84 euro e arriverà nel 2019 a 9,19. Si tratta di un livello elevato o congruo un salario minimo ipotizzato per l’Italia a 9 euro? Tutto, come è ovvio, è relativo. Di norma il salario minimo viene fissato tra il 40 e il 60% della retribuzione oraria mediana: al di sotto infatti la fissazione per legge è ininfluente, al di sopra rischia di provocare disoccupazione aggiuntiva o un maggiore ricorso al 'nero'. La scelta della Germania tre anni fa, ad esempio, è stata quella di fermarsi al 51% circa della mediana dei salari, prevedendo nel contempo diverse deroghe per giovani e apprendisti; mentre la Francia è arrivata al 62% e dopo l’ultimo aumento è a 10,03 euro lordi (7,72 netti). In questo quadro, i 9 euro ipotizzati (lordi o netti è da vedere) – pari a circa 1.530 al mese a tempo pieno, più dei 1.520 lordi (1.171 netti con 35 ore) in Francia, i 1.557 in Germania e i 1.050 appena raggiunti in Spagna – si attesterebbero su un livello decisamente superiore: intorno al 64% della retribuzione contrattuale media calcolata dall’Istat in 13,97 euro l’ora, ma ben all’80% della retribuzione mediana – la soglia al di sotto della quale sta la metà dei lavoratori italiani – pari a 11,21 euro l’ora. Secondo l’Inps oggi il 22% dei dipendenti – escluse colf e lavoratori agricoli – riceve meno di 9 euro l’ora. E infatti se si esaminano i minimi dei contratti nazionali, il settore tessile-abbigliamento con 6,6 euro l’ora è molto al di sotto del livello previsto, assieme ad altri comparti come l’agricoltura 7,13, mentre il settore metalmeccanico con un minimo di 1.299 lordi al mese è intorno ai 7,75 euro l’ora. C’è poi il contratto nazionale delle colf, per le quali il compenso orario varia da un minimo di 4,62 euro l’ora a un massimo di 8,21 per le super-specializzate. In questo caso il nuovo salario minimo legale intorno ai 9 euro farebbe scattare aumenti assai pesanti per le famiglie, anche se già oggi, almeno nelle grandi città, i minimi contrattuali vengono molto spesso superati.
Ma a chi servirebbe davvero il salario minimo legale? L’introduzione anche nel nostro Paese sarebbe funzionale a tutelare quantomeno quel 15-20 per cento di lavoratori che non sono coperti dalla contrattazione nazionale e quei 2,5 milioni di lavoratori tra dipendenti, parasubordinati e autonomi che vengono retribuiti a livelli inferiori ai minimi contrattuali e al di sotto delle soglie di povertà. Una porzione di popolazione, questa dei ' working poor', che si è ampliata negli ultimi anni complice la crisi, l’emergere della ' gig economy' (l’economia dei lavoretti) e il proliferare dei cosiddetti 'contratti pirata': da 400 patti nazionali si è passati in 5 anni a oltre 800, firmati da sindacati poco rappresentativi o filopadronali che stabiliscono minimi molto al di sotto delle medie del settore. Proprio questo dei contratti è in realtà il nodo principale. «Siamo disponibili al confronto con Governo e Parlamento per condividere misure concrete per alzare i salari dei lavoratori e soprattutto per contrastare il dumping contrattuale – spiega Luigi Sbarra, segretario generale aggiunto della Cisl –. Ma non siamo disposti a sostenere ipotesi dannose come il salario minimo fissato per legge. Ciò che serve è garantire erga omnes i minimi fissati nei contratti collettivi firmati da parti sociali davvero rappresentative. Non va dimenticato infatti che un buon contratto oltre ai minimi tabellari comporta molti altri elementi salariali (maggiorazioni, premi, edr) nonché un sostanzioso welfare (pensionistico e sanitario) che nessun salario minimo per legge potrà mai garantire». Sulla stessa linea la Confindustria, secondo cui «il Patto della Fabbrica, firmato nel 2018, individua nei contratti collettivi un Trattamento economico minimo ( Tem), considerandolo equivalente al salario minimo inderogabile, da tenere distinto dal Trattamento economico complessivo ( Tec), dove verrebbero ricomprese tutte le altre voci retributive », ha spiegato il direttore dell’area lavoro Pierangelo Albini, mentre con l’adozione del salario minimo legale c’è il rischio di far perdere ai lavoratori tutte le altre tutele previste dalla contrattazione. «Il legislatore – è quindi la conclusione degli industriali – potrebbe limitarsi a stabilire un livello di salario minimo orario da rispettare solo nei settori non regolati da contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali e dei datori più rappresentative ». Obiezioni a cui la maggioranza non sembra insensibile. «Con le audizioni vogliamo ascoltare le parti sociali e le istituzioni convocate– spiega la senatrice M5s Nunzia Catalfo – poi decideremo come tarare il meccanismo per quali categorie prevedere deroghe e come contrastare il dumping salariale. Si tratta però di un intervento necessario per dare tutela a chi ne è escluso». Linea confermata ieri sera dallo stesso vicepremier Luigi Di Maio che ha annunciato l’apertura di un tavolo tecnico con i sindacati e assicurato di non voler superare la contrattazione.
Il rischio di delegittimare la rappresentanza sindacale e la stessa contrattazione, a tutto danno dei lavoratori, in effetti è reale. Perché, una volta fissato un minimo legale, alcuni imprenditori potrebbero limitarsi ad applicare quello senza altre tutele per i dipendenti. Ma oltre a ciò, c’è anche il nodo dei meccanismi di calcolo del salario minimo e dell’organismo che dovrà stabilirlo. «In realtà sarebbe sbagliato fissare nella legge un dato numerico rigido – spiega il senatore Pd Tommaso Nannicini –. Come avviene in altri Paesi, invece, nella norma andrebbe stabilito solo il principio e poi demandati a una commissione, in cui siano rappresentate le parti sociali, il calcolo e l’aggiornamento del salario effettivo». Una scelta che potrebbe portare M5s e Pd a ripensare quei 9 euro lordi o netti all’ora lanciati forse con un calcolo (elettorale) un po’ troppo azzardato.