La cosa più importante per chi deve balzare fuori da una "trincea" è sapere che dietro di lui c’è chi fa di tutto per coprirgli le spalle. I guai iniziano quando ha buoni motivi per temere che il compagno dietro di sé possa preoccuparsi soltanto della propria incolumità o, peggio, che possa sparargli alla schiena...
Metafora forse troppo cruda, ma sembra questo ormai l’umore dell’Italia verso il resto d’Europa quando si tratta di Mediterraneo. Per chi è cresciuto, come la maggior parte degli italiani (a lungo i più europeisti di tutti), con l’idea che l’Europa comunitaria fosse "la soluzione" ai problemi, la delusione per l’atteggiamento irresponsabile, egoista e vile di troppi leader degli Stati europei "fratelli" rischia di deflagrare in qualcosa di potenzialmente pericoloso.
L’idea di essere lasciati soli, traditi negli impegni, aumenta a dismisura la sensazione di pericolo e di minaccia, ben oltre i dati della realtà. Non è facile convincere gli italiani che siamo sì dinanzi a un serio problema – quello delle migrazioni forzate in corso – ma che non esiste una apocalittica «invasione» di orde ostili, quando ministri e capi di Stato e di Governo esteri parlano dell’Italia come se si trattasse de gli untori della peste nera.
Quando, per compiacere la "pancia" dei propri elettori, costoro arrivano ad annunciare carri armati alle frontiere o ad affermare che l’Italia dovrebbe costruire un grande campo di concentramento per i profughi a Lampedusa, per tenerli «tutti lì», o, ancora, a chiedere di chiudere tutti i porti del Bel Paese, presidenti, ministri e parlamentari dimenticano che, al di là delle missioni navali europee oggi in atto, esiste comunque e sempre un diritto internazionale del mare che impone – non consiglia: impone – di salvare ogni essere umano in difficoltà.
Perciò è difficile parlare di "risposta comune" dell’Unione Europea alla crisi migratoria, quando quasi tutti gli altri Paesi membri tradiscono gli accordi e bloccano la redistribuzione dei migranti per quote nazionali. Ed è esasperante subire la retorica della "riposta comune" dell’Alleanza Atlantica dinanzi alle sfide, quanto la Nato oggi guarda soltanto a Est e sembra dimenticarsi della sua "sponda Sud".
Dinanzi a questa miopia, che ingrassa l’ottusa retorica populista, per il Governo di Roma resta civilmente inevitabile ma diventa politicamente oneroso tenere la barra dritta sulla strada dell’accoglienza dei profughi e dell’impegno per la stabilizzazione della sponda sud del Mediterraneo, mentre si lavora – anche qui con scarso aiuto e quasi nulla lungimiranza da parte di partner e alleati – per ridurre le cause sistemiche di questi flussi e per favorire un miglior controllo delle frontiere libiche e il rispetto dei diritti umani dei migranti. Tanto più che le elezioni politiche si profilano ormai vicine anche per l’Italia, non solo per i nostri partner europei, e pochi argomenti sono facili alla speculazione politica come questi.
Ad acuire il senso di sfilacciamento, la recente mossa sulla Libia dell’ipercinetico neopresidente francese Emmanuel Macron, che vuole ospitare a Parigi un incontro fra il premier libico Sarraj, a capo di uno fragilissimo governo di unità nazionale spalleggiato dall’Onu e in particolare dall’Italia, e il suo arci-nemico il generale Haftar, che controlla la Cirenaica e ama presentarsi come il comandante delle Forze armate nazionali che combatte le milizie autocefale. In realtà, Haftar è uno dei vari capibanda che infestano la Libia, ma può farsi forte del sostegno di Egitto, Emirati Arabi Uniti e della stessa Francia. La mossa di Parigi, che esclude l’Italia, è l’ennesimo colpo basso contro la nostra azione diplomatica e di sicurezza in Libia e la dimostrazione di una spregiudicatezza pericolosa che ha già prodotto guasti sia in Africa sia nel Vicino Oriente.
Parigi e Londra hanno responsabilità molto serie nello sfacelo della Libia di oggi; eppure continuano a giocare una partita senza un reale coordinamento con Roma, E in Europa è l’Italia che di questo disastro paga i prezzi maggiori. Entrare a piedi uniti, come sta facendo il nuovo "faraone" parigino, nel delicato percorso di ricerca di un accordo, significa in realtà solo danneggiare quanto finora fatto. E cercare di massimizzare, in modo scomposto, il proprio tornaconto.
Insomma, comprensibile la tentazione di essere noi a rovesciare il tavolo e minacciare ritorsioni. In realtà, se si usa la testa e non la pancia, quanto balza agli occhi è che una seria politica di difesa dei nostri interessi nazionali non può fare a meno del contesto europeo e che non è lo strillare scomposto contro i nostri partner del Vecchio Continente (per quanto a volte ci invoglino a farlo) che potrà produrre mutamenti tangibili nelle politiche e nei comportamenti. Il triste mito secondo cui «l’Italia farà da sola», per cortesia, lasciamolo ben sepolto nelle pagine più cupe dei libri di storia. Ma se in Europa non ci si rende presto conto che il domani comune ricomincia anche dal Mediterraneo e dall’obiettivo ruolo dell’Italia, non si andrà lontano.