Non esiste nessuna soluzione miracolosa alla crisi nucleare che coinvolge la Corea del Nord e anche il comprensibile e condivisibile auspicio per una 'soluzione diplomatica' non deve illudere che questa sia a portata di mano. La via diplomatica non ha (quasi) nessuna alternativa semplicemente perché tutte le altre sono o impraticabili (un cambiamento di regime incoraggiato dall’esterno) o estremamente rischiose (un attacco militare sugli impianti nucleari e balistici del regime di Kim). Il potere del dittatore coreano, puntellato anche da puntuali e spietate 'purghe', rimane estremamente solido perché è il prodotto di un consolidato accordo tra il dittatore e i vertici delle forze armate, vera 'casta sacerdotale' del regime, perfettamente consapevole che la caduta di Kim la priverebbe degli straordinari privilegi di cui gode da decenni.
Un’azione militare, fosse pur concordata tra i 'grandi', non impedirebbe comunque a Pyongyang di reagire con straordinaria violenza convenzionale contro i cugini del Sud, la cui capitale Seul si trova a ridosso del confine del 38° parallelo. La sola strada possibile è quindi quella di un inasprimento delle sanzioni, che però dovranno arrivare a includere i rifornimenti petroliferi ed essere seriamente applicate da tutti, a partire dai cinesi, nella consapevolezza però che è impossibile 'rimettere il dentifricio nel tubetto' e che con una Corea del Nord nuclearizzata dovremo rassegnarci a convivere almeno fino a quando, e sempre che accada, un giorno Kim possa essere allontanato del potere.
E sapendo che, ingiustamente, il prezzo di tutto questo lo continuerà a pagare il popolo tenuto in sudditanza dal dittatore di Pyongyang. Il fallimento totale della gestione del dossier nordcoreano si specchia nel suo opposto, ovvero nel successo arriso a quello iraniano. In questo secondo caso, dopo anni di trattative e di durissime sanzioni internazionali, nell’estate di due anni fa venne stipulato un accordo, il Joint Comprehensive Plan of Action ( Jcpoa) tra i '5+1' (i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza integrati dalla Germania) e l’Iran, accordo che ha portato alla consegna da parte della Repubblica Islamica dell’uranio arricchito, alla distruzione di migliaia di centrifughe e allo smantellamento di un impianto ad acqua pesante.
Un’intesa che funziona perfettamente, con buona pace dei suoi interessati detrattori, come ha pubblicamente attestato l’Agenzia Internazionale per l’energia atomica appena qualche settimana fa. Ciò che ha reso impossibile perseguire la medesima via con la Corea del Nord, nonostante i colloqui protrattisi per anni secondo una formula analoga (i 'cinque grandi' più la Corea del Sud di fronte alla Corea di Nord) è stata la scarsa e poco leale collaborazione della Cina. I cinesi hanno infatti impedito che alla 'carota' delle concessioni al regime (soprattutto in materia alimentare ed energetica) fosse associato il bastone di un fronte senza incrinature. Sia ben chiaro: nessuno, neppure i cinesi, auspicava la trasformazione della Corea del Nord in una potenza nucleare, ma Pechino sperava di poter utilizzare la 'pedina coreana' per rendere sempre più costosa e ingestibile la presenza americana nella regione.
La Cina ha infatti cambiato la sua politica verso Washington ed è sempre più insofferente rispetto al ruolo di garante dello status quo ( overseas balancer) che l’America si riserva nel Pacifico da quasi un secolo. Una crisi che si trascinasse per anni, come una ferita mai cicatrizzata, sembrava l’ideale per mettere in difficoltà gli Stati Uniti. E nel nome del perseguimento di questo 'obiettivo nazionale', Pechino ha accettato di mettere a rischio il conseguimento dell’'obiettivo internazionale' di bloccare il regime del Nord. È stato un azzardo mal calcolato. Anche e soprattutto perché non ha considerato che Kim, come i suoi predecessori, piuttosto che una indocile pedina è un astuto giocatore d’azzardo, che ha messo a frutto la lezione imparata in questi anni. Finora, 'fare il pazzo' lo ha ripagato di ottimi risultati, ovvero si è dimostrata una strategia rischiosa ma razionale.
Anche adesso la Cina non può vanificare anni di politica estera consentendo una soluzione sia pur solo diplomatica dalla quale gli Stati Uniti escano come vincitori: questo infatti consoliderebbe le alleanze americane nella regione e, probabilmente, porterebbe verso Washington gli indecisi. Al contrario, dimostrare l’impotenza di Trump, per poi magari trovare un accordo al ribasso, magari su iniziativa della Russia (che pure ha interesse a indebolire gli Usa), produrrebbe gli effetti opposti, convincendo molti che non resta che rassegnarsi alla nuova egemonia di Pechino in Asia Orientale.