giovedì 1 settembre 2022
Si apre uno scenario in cui le Banche centrali potrebbero non riuscire a gestire le emergenze. Bisogna calmierare i prezzi e lanciare un grande Green New Deal
L’inflazione e l’aumento dei tassi sono una trappola mortale, anche l’Italia potrebbe uscire dalla moneta comune.

L’inflazione e l’aumento dei tassi sono una trappola mortale, anche l’Italia potrebbe uscire dalla moneta comune.

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Pubblichiamo ampi stralci dell’articolo di padre Gaël Giraud, economista e direttore dell’Environmental Justice Program della Georgetown University. L’analisi è contenuta nel nuovo quaderno (4133) della «Civiltà Cattolica».

L’inflazione globale non è stata in alcun modo prevista dagli economisti. Nella maggior parte dei Paesi industrializzati ora raggiunge l’8% su base annua e promette di accompagnarci nei prossimi mesi e forse anche nei prossimi anni. Nella misura in cui la maggior parte delle società occidentali ha scelto, quarant’anni fa, di dare la priorità alla lotta contro l’inflazione rispetto a qualsiasi altra considerazione politica, un gran numero di banche centrali occidentali si ritiene ormai costretto a imitare la politica monetaria antinflazionistica della Federal Reserve statunitense. E quest’ultima ha appena deciso un aumento dei tassi di interesse di riferimento senza precedenti da diversi decenni. Tuttavia questa decisione non è affatto una 'risposta tecnica' all’inflazione. Essa espone infatti il Pianeta al rischio maggiore di un nuovo crollo finanziario, simile, o addirittura peggiore di quello del 2007-2009, eventualmente accompagnato da crisi del debito pubblico analoghe a quella della Grecia nel decennio successivo. Come siamo arrivati a questo punto? Esistono politiche pubbliche alternative?

Per anni la Banca centrale di Francoforte ha ritenuto di essere autorizzata a far piovere liquidità mantenendo un tasso di riferimento molto basso, perché questa politica monetaria sembrava non avere alcun impatto inflazionistico, mentre in realtà l’inflazione era nascosta nelle bolle immobi-liari e finanziarie. Ora, ancora convinta che sia la quantità di moneta in circolazione a determinare l’inflazione, la Bce vuole prosciugare il diluvio che essa stessa ha generato. Il problema è che, non essendo più manipolati artificialmente verso il basso, i tassi di interesse sui debiti pubblici dei Paesi dell’eurozona hanno immediatamente iniziato a salire fortemente, per convergere verso un livello coerente con lo stato reale delle finanze pubbliche europee e dell’inflazione. La Germania è tornata a tassi vicini al +1,5%, e l’Italia si avvicina già al +4%. Sarebbe logico che i tassi di prestito dei Paesi dell’eurozona raggiungessero il livello di inflazione più un premio per il rischio (che dipende dalla valutazione della solvibilità di un Paese da parte dei mercati finanziari), il che dovrebbe portarli all’interno di un range compreso tra l’8% (per la Germania) e il 12% (per l’Italia). Anche se i criteri utilizzati dai mercati finanziari per valutare la solvibilità di un debito sovrano hanno spesso scarse basi scientifiche, un tale livello dei tassi di interesse accelererà inevitabilmente l’aumento del debito pubblico di questi Paesi. Questo ciclo si autoalimenterà fino al punto in cui alcuni fondi speculativi (contro i quali non è stato fatto nulla per proteggere le nostre finanze pubbliche) sceglieranno di scommettere sul mancato rimborso di questo o quello Stato europeo, come hanno già fatto a spese della Grecia nel 2010.

Esiste quindi il rischio concreto che il crollo finanziario – del mondo obbligazionario o del mondo azionario, o perfino di entrambi – sia accompagnato, o forse preceduto, da una crisi del debito pubblico europeo. La Bce si trova quindi di fronte a un secondo delicato dilemma: o continua ad acquistare il debito pubblico di Paesi che rischiano di non sopportare il rialzo dei tassi di interesse (in primo luogo, l’Italia), ma, in questo caso, continuerà ad alimentare l’inflazione – ed è probabile che la Germania si opponga –; oppure si astiene dal sostenere i Paesi le cui finanze pubbliche appaiono fragili (a tor- to o a ragione, non importa). Non si potrà più accusarla di alimentare il fuoco dell’inflazione, ma per l’Italia probabilmente si dovranno attuare procedure simili a quelle attuate per la Grecia, non appena i mercati finanziari si spaventeranno: porla sotto la tutela della Troika, imporre un piano di austerità che distruggerà l’economia italiana e sarà seguito dalla privatizzazione di una parte sostanziale dei suoi beni (aeroporti, società pubbliche, isole, porti ecc.).

Tuttavia, il caso greco ci dimostra che queste 'ricette' non riducono il rapporto debito-Pil: distruggendo l’economia, le misure di austerità riducono il Pil almeno altrettanto rapidamente del debito. Roma, però, non è Atene, e si può supporre che il caos politico che ne deriverebbe potrebbe portare a un’uscita dall’eurozona. È questo scenario negativo che la Bce cerca di evitare e che giustifica i suoi indugi: a luglio ha aumentato il tasso di riferimento solo di 0,5 punti, annunciando al contempo la fine dell’App e del Pepp. Christine Lagarde prevede inoltre di implementare un programma Tpi ( Transmission Protection Instrument) che autorizza riacquisti illimitati del debito pubblico. Tuttavia, per sfuggire alle critiche di alimentare l’inflazione, il Tpi prevede che la Bce non creerà nuova liquidità monetaria: si limiterà a reinvestire il denaro che recupererà dal rimborso del vecchio debito. È chiaro a tutti che questo limiterà di fatto in modo considerevole il potere d’azione della Bce e una banca come Ubs ha già criticato apertamente l’inefficacia di questo meccanismo.

Infine, rimane l’idea di una futura implementazione di un euro digitale, una criptovaluta emessa dalla Bce. I suoi promotori sostengono che permetterebbe a qualsiasi risparmiatore europeo di sottoscrivere il debito sovrano europeo. Tre obiezioni, tuttavia: 1) Le criptovalute richiedono molta energia per far funzionare i loro algoritmi di crittografia. Sarebbe un grave errore ecologico. 2) Non c’è bisogno di un euro digitale per consentire ai cittadini europei di prestare i propri risparmi agli Stati. In Francia, tutti potevano sottoscrivere Buoni del Tesoro fino a quando non è stato vietato negli anni Settanta, per costringere lo Stato a finanziarsi sui mercati. 3) Da anni le banche europee sono entusiaste del passaggio all’euro digitale. Perché? Ciò consentirebbe loro di imporre collettivamente commissioni di gestione proibitive sui conti di deposito dei risparmiatori europei, senza che questi ultimi possano tutelarsi ritirando il proprio denaro: non si può conservare il denaro digitale sotto il materasso.

In realtà, i Paesi 'falchi' del Nord Europa – Germania, Austria, Paesi Bassi, Finlandia – hanno predisposto almeno dal 2016 un piano per un’uscita coordinata dall’eurozona con la creazione di una 'zona Marco' . Se i Paesi del Nord Europa si separeranno dai Paesi dell’Europa meridionale, è probabile che la Francia di Emmanuel Macron si sentirà poi obbligata a seguire la Germania in questa avventura, per preservare una moneta comune con il suo vicino d’oltre Reno, anche a costo di abbandonare l’Italia, sacrificare il progetto europeo e rischiare di diventare la 'Grecia del Nord'. Si capisce ora perché le recenti decisioni delle nostre banche centrali non hanno nulla di 'tecnico', ma, al contrario, dipendono da scelte politiche importanti? È tempo che queste decisioni siano sottoposte a una deliberazione democratica.

Ci sono, tuttavia, molti modi per garantire la stabilità del sistema finanziario globale e la continuità del progetto europeo. Ci vorrebbe molto più spazio di quello consentito da questo articolo per sviluppare i dettagli di queste politiche alternative. Mi si perdonerà quindi di essere breve. La prima cosa da fare, mi sembra, è praticare il controllo dei prezzi. Ciò è stato fatto dall’amministrazione Roosevelt durante la Seconda guerra mondiale, attraverso l’istituzione dell’Office of Price Administration nel 1941, che controllava i prezzi di prodotti al consumo e degli affitti. Certo, si dirà, ma non siamo (ancora) in guerra. A questa obiezione bisogna rispondere che l’urgenza di attuare la transizione ecologica e di adattarsi al riscaldamento globale e alla scomparsa della biodiversità già in atto è almeno altrettanto pressante della sopravvivenza di un’economia di guerra.


È la via per evitare la catastrofe ecologica, la stagflazione, un altro crollo finanziario e una nuova crisi dei debiti pubblici

Inoltre, si stanno già levando delle voci per sostenere che parte dell’inflazione che stiamo vivendo non è dovuta all’aumento dei costi, ma a dei 'parassiti' che cercano di trarne vantaggio per aumentare il proprio profitto . È qui che si impone un controllo dei prezzi. Non farà scomparire l’inflazione incomprimibile, causata dall’aumento dei costi di estrazione dei combustibili fossili e delle materie prime, ma consentirà di limitarne significativamente gli effetti, vietando, ad esempio, margini superiori al 20%. Oggi, il controllo sui prezzi sembra una misura medievale o degna della Corea del Nord, poiché le nostre menti sono plasmate dall’ideologia neoliberista. Peraltro, una volta compreso che l’attuale inflazione è anzitutto determinata dalla progressiva scarsità di accesso ai combustibili fossili (a cominciare dal petrolio) e di alcune materie prime, dovrebbe essere evidente che il modo migliore per proteggersene consiste nel ridurre la nostra dipendenza dal petrolio. Esistono scenari per eliminare gradualmente i combustibili fossili e decarbonizzare le nostre economie. Di recente ho pubblicato un rapporto che lo dimostra per la Francia . E il costo di un simile scenario (2% del Pil all’anno fino al 2050) non è certo trascurabile, ma rimane accessibile a un’economia ancora ricca come quella francese. La riduzione della dipendenza delle nostre economie da determinate risorse naturali, destinate a diventare rare, è un processo complesso almeno quanto la decarbonizzazione, e molto meno compreso: consiste nel rinunciare alla miniaturizzazione dei nostri manufatti, alla microelettronica delle nostre vite e all’obsolescenza programmata dei prodotti 'usa e getta'. Richiede l’invenzione di un’industria low-tech di prodotti durevoli, facili da riparare e riciclare.

Dopo avere riportato l’inflazione a livelli tollerabili (tra il 2% e il 4% ) grazie al controllo dei prezzi e alla riduzione della nostra dipendenza dai combustibili fossili (poi, quanto prima, dei minerali critici), le Banche centrali non avrebbero più bisogno di aumentare i tassi di interesse o di porre fine alla loro politica di acquisto del debito pubblico. Per quanto riguarda le economie in difficoltà come l’Italia o la Grecia, piuttosto che passare attraverso i Tpi, sarebbe probabilmente più efficace finanziare il loro sostegno attraverso una nuova emissione di debito comunitario, simile ai coronabond emessi nel 2020. A condizione, ovviamente, di finanziare il rimborso di questo debito europeo con nuove entrate fiscali, come una carbon tax alle frontiere dell’Eurozona o una tassa sulle transazioni finanziarie. Nonostante ciò, dovrebbe forse continuare la politica del diluvio monetario che ha contribuito essenzialmente a gonfiare le bolle speculative e ad ampliare le disuguaglianze di reddito? No, a mio avviso. Le banche centrali dovrebbero riorientare la loro politica monetaria verso il finanziamento dello scenario di transizione a cui ho appena accennato: un Green New Deal degno di questo nome, sia in Europa sia negli Stati Uniti . Potrebbero, ad esempio, condizionare l’acquisto del debito pubblico all’attuazione di un tale piano di transizione ecologica e condizionare il loro tasso di interesse di riferimento all’'ecologizzazione' della politica creditizia delle banche commerciali. Il punto decisivo è che una tale politica non avrebbe motivo di alimentare l’inflazione.


Esistono scenari per eliminare i combustibili fossili e decarbonizzare i nostri sistemi
In Francia costerebbe il 2% del Pil ogni anno

Che cos’è infatti il livello generale dei prezzi se non il rapporto tra la quantità di moneta in circolazione e la dimensione dell’economia reale? Se il denaro aumenta senza aumentare la dimensione della torta, cioè senza creare valore, allora sì, ci sarà inflazione. Questo è ciò che osserviamo ogni giorno nei mercati finanziari e immobiliari. D’altra parte, se la dimensione della torta aumenta all’incirca alla stessa velocità della quantità di denaro utilizzata per misurarne il valore, allora non può esserci inflazione. Questo è il motivo per cui alcuni Paesi sono riusciti a mettere in pratica ingenti piani di investimento senza spinte inflazionistiche. Si teme davvero che un Green New Deal degno di questo nome non crei abbastanza valore economico per evitare una spirale inflazionistica? La risposta è ovviamente incerta, ammettiamolo. E varierà da un Paese all’altro. Ma se questo, al contempo, ci permette di evitare sia le peggiori conseguenze della catastrofe ecologica, sia la stagflazione che durerà finché saremo dipendenti dal petrolio e da altre fonti minerarie, sia un altro crollo finanziario, sia una nuova crisi dei debiti pubblici europei, non è un rischio che vale la pena correre? Un Green New Deal internazionale e coordinato dovrà ormai tener conto anche della crisi alimentare globale che potrebbe derivare dall’inflazione dei prodotti agricoli nei Paesi del Sud del mondo. Poiché una cosa è certa: l’aumento dei tassi d’interesse delle Banche centrali occidentali non consentirà di lottare contro le carestie che si preannunciano.

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