Il Governo ha annunciato l’avvio dell’iter della Legge di Bilancio 2019 con l’aumento del deficit che tante discussioni e tensioni ha provocato. Ma neppure lo sfondamento del 'tetto' concordato con Bruxelles potrebbe bastare a finanziare nella misura desiderata i provvedimenti promessi agli elettori. È spuntata allora nei giorni scorsi un’idea per ridurre la platea dei beneficiari della norma forse più emblematica, il reddito di cittadinanza, soddisfacendo al tempo stesso la voglia di tutelare «prima gli italiani». Il vicepremier Di Maio ha dichiarato: «È chiaro che è impossibile, con i flussi migratori irregolari, non restringere la platea e assegnare il reddito di cittadinanza ai cittadini italiani». L’argomento, nel clima attuale, forse piacerà a non pochi elettori, ma va analizzato con attenzione.
In primo luogo, assembla artificiosamente due popolazioni diverse: gli immigrati irregolari (stimati in 400-500.000, ma non più numerosi che in passato, in buona parte donne occupate nelle case degli italiani) non potranno beneficiarne in ogni caso. Gli immigrati regolari sono invece circa 5,5 milioni, da anni sostanzialmente stabili, e comprendono 2,4 milioni di occupati (Istat) che pagano tasse e contributi, a fronte di pochi pensionati (appena il 2%). Denotano però anche una disoccupazione del 13,2% per i cittadini dell’Unione Europea e del 14,9% per i cittadini extracomunitari. La popolazione straniera incide inoltre per circa il 30% sui 5 milioni di persone in condizione di povertà assoluta (Di Pasquale, Stuppini e Tronchin su lavoce.info). I beneficiari potenziali del reddito di cittadinanza dunque tra gli stranieri saranno una minoranza, ma non comunque pochi.
Prima di domandarci se sia giusto escluderli, dovremmo chiederci se sia possibile. Qui occorre precisare: gli immigrati non sono tutti uguali, ma comprendono persone con posizioni giuridiche diverse. Per iniziare, 1,5 milioni sono cittadini della Ue, soprattutto romeni: norme chiarissime e recepite dall’Italia impediscono di discriminarli rispetto ai cittadini nazionali. Allo stesso titolo gli italiani accedono ai servizi dei Paesi dell’Unione in cui si sono trasferiti, compresi i sussidi di disoccupazione e le misure di sostegno per i redditi bassi. L’unica via per sottrarsi a questi vincoli (togliendo quei sostegni anche ai propri cittadini all’estero) è uscire dalla Ue come hanno deciso gli elettori britannici, ma non è nemmeno detto che ci riescano. La Ue finora ha resistito. Un secondo gruppo è quello dei cittadini stranieri con permessi di lungo soggiorno: 2,2 milioni di persone, cresciute nel tempo come conseguenza della stabilizzazione della popolazione immigrata. Anche per loro, una direttiva Ue del 2003, recepita dall’Italia nel 2007, stabilisce che debbano godere delle stesse prestazioni sociali dei cittadini nazionali. Rimangono i soggiornanti con permessi di breve periodo, ma pur sempre regolarmente residenti. Anche per questa componente però varie sentenze europee e nazionali in materia di prestazioni sociali, per esempio sui contributi per i nuovi nati (i cosiddetti bonus bebé), hanno annullato con crescente intensità e uniformità di giudizio le differenze di trattamento stabilite dai decisori politici.
Stupisce quindi che chi occupa le massime responsabilità governative possa lanciare una proposta così chiaramente discriminatoria e tanto contraria alle norme vigenti da essere destinata con ogni evidenza a una bocciatura. L’improvvida uscita del ministro Di Maio si può spiegare solo in tre modi, tra loro neppure alternativi. In primo luogo, non lasciare allo scomodo alleato leghista il monopolio del nazionalismo che inclina (più o meno) apertamente alla xenofobia. Secondo, il governo potrebbe comunque varare la norma, contando sulla lentezza dei ricorsi e delle decisioni della Corte costituzionale per vincere nel frattempo qualche elezione. Oppure, terza spiegazione, potrebbe aver messo in conto un fallimento e pensato di 'incolpare' gli immigrati (e chi li difende) per il ridimensionamento o la bocciatura del reddito di cittadinanza.
Individuare le minoranze deboli come capro espiatorio delle tensioni sociali non sarebbero purtroppo una novità nella storia europea. In questo 3 ottobre, giornata della memoria delle vittime dell’immigrazione, è forse il caso di ricordarlo.
Università di Milano e Cnel