La ripresa dei combattimenti attorno all’area di Idlib, l’ultima roccaforte dell’opposizione al regime di Damasco, ha portato nuovamente l’attenzione sulla Siria da parte di una comunità internazionale sempre più svogliata e svagata quando si tratta di affrontare i grandi nodi mediorientali. Di fatto, pressoché tutti gli oppositori di Bashar al-Assad si sono rassegnati al fatto che egli – o meglio, i suoi alleati iraniani e russi – abbiano vinto il conflitto, e che il dittatore rimarrà al suo posto. Ma vincere militarmente non significa risolvere politicamente una guerra civile così brutale e che è presto diventata una proxy war, ossia una guerra per procura fra i diversi attori regionali e internazionali. Il Paese è tutto tranne che pacificato, e rimangono irrisolti i motivi e le tensioni che hanno portato, quasi un decennio fa, allo scoppio delle violenze.
Anzi, la scia di morti, feriti e distruzioni, di sfollati e esiliati non ha fatto altro che esasperare le divisioni e le polarizzazioni interne fra le comunità e le fazioni etniche, religiose e politiche. Quanto manca oggi è una seria iniziativa internazionale che cerchi di affrontare gli enormi problemi sul terreno, che i successi militari del regime non riescono a nascondere: centinaia di migliaia di morti, più della metà della popolazione rifugiata all’estero o sfollata all’interno dei confini, danni stimati per oltre 400 miliardi di dollari. Né Assad né i suoi protettori hanno i mezzi per farvi fronte. E neppure hanno l’interesse, sia pure con molti distinguo di posizione, a promuovere una pacificazione della Siria che giocoforza dovrebbe concedere qualcosa agli oppositori e alle potenze regionali che li hanno sostenuti.
Ma se c’è una cosa che ogni conflitto ci insegna molto bene è che la vittoria militare non rappresenta mai il fine ultimo, dato che la soluzione credibile e permanente a una fase di guerra è necessariamente politica. Se non possiamo aspettarci molto da Damasco, abbiamo invece il dovere di pretendere dalle Nazioni Unite e dall’Occidente una ripresa di una iniziativa politica di ampio respiro. Purtroppo, l’Onu sembra condannato all’afonia, e non solo per le vicende siriane. Si è parlato ieri su queste pagine della catastrofica situazione dello Yemen: un disastro umanitario che non riesce a scalfire l’indifferenza internazionale.
All’orizzonte vi è poi la crescita della tensione fra Iran da una parte e Stati Uniti, Israele, Arabia Saudita ed Emirati arabi dall’altra, che rischia di scardinare tutti i fragili equilibri della regione. La scelta avventata della presidenza Trump di ritirarsi dall’accordo nucleare con Teheran ha favorito – come previsto – una deriva massimalista e le posizioni oltranziste.
Considerato il peso geopolitico e le innervature che Teheran ha in buona parte dei Paesi mediorientali, sarebbe criminale non attivarsi seriamente per ridurre i rischi di una escalation dalle conseguenze devastanti, dall’Afghanistan al Libano, passando per l’Iraq. Purtroppo, è irrealistico aspettarsi qualcosa da un’Unione Europea che fatica a nominare una nuova Commissione e che appare da troppi anni focalizzata ossessivamente sul proprio ombelico.
Ma rassegnarsi alla inazione totale, subendo iniziative sporadiche o scoordinate che ci scavalcano, appare follia ancor maggiore dell’essere utopici. Qualcuno pensa che i confini siano tutto, ma fuori dai nostri confini ci sono troppe questioni a cui dobbiamo cercare di rispondere con politiche coordinate di lungo periodo: dalla crisi in Libia a quella nel Levante; dal rischio di conflitto nel Golfo al problema dei rifugiati e dei migranti; dagli squilibri demografici a quelli economico-sociali almeno sulle diverse sponde del Mediterraneo.
Gli slogan, le furbizie politiche, le letture ideologizzate possono nascondere le dinamiche reali di fondo, ma certo non le risolvono. È evidente che oggi noi europei non abbiamo le forze per trovare soluzioni, ma abbiamo il dovere morale e la necessità geopolitica di porle sul tavolo in modo complessivo e coordinato, rilanciando l’azione diplomatica multilaterale.