Joe Biden, appena insediatosi alla Casa Bianca, aveva deciso di marcare l’enorme distanza dal suo predecessore con una raffica di ordini esecutivi che in molti casi hanno ribaltato le discusse iniziative di Donald Trump. Anche in politica estera, con lo slogan «l’America è tornata», ha rinnegato molte scelte recenti, cercando di recuperare la tradizionale visione geopolitica di Washington. Sull’Afghanistan, al contrario, ha deciso di seguire la politica di disimpegno adottata da 'The Donald'.
Per giustificare questa decisione comprensibile, ma estremamente discutibile, si è rifugiato nella debole motivazione che «abbiamo ereditato questo accordo e gli Stati Uniti non fanno marcia indietro dai propri impegni». Una frase che risulta amaramente ironica nei confronti degli impegni presi non solo nei confronti del governo alleato di Kabul, ma soprattutto verso il popolo afghano, al quale tutta la Nato aveva promesso venti anni fa l’aiuto per costruire una pace vera e positiva, oltre che la ricostruzione di un Paese devastato e il sostegno per creare un sistema politico liberale, dopo l’occupazione sovietica, la guerra civile e l’oscuro dominio dei taleban.
Nella fretta di ritirare i soldati Usa, Trump aveva stretto accordi diretti proprio coi taleban – o perlomeno con una fetta importante di questo variegato movimento – escludendo il governo di Kabul, al quale era poi stato imposto di aprire negoziati. L’errore più evidente è stato quello di non pretendere un parallelo cessate il fuoco da parte delle milizie islamiste. Che, anzi, si sono imbaldanzite, e non era difficile prevederlo: avendo percepito la volontà di 'lasciare' a qualsiasi costo, esse hanno intensificato gli attacchi militari, con l’obiettivo di ottenere di più nelle trattative. O di vincere sul campo, se le trattative dovessero fallire.
Certo, vi sono evidenti ragioni che spingono Washington a ritirarsi: dopo venti anni, i taleban non sono sconfitti e restano profondamente innervati nel gruppo pashtun, principale etnia afgana. Non si è riusciti a vincere con in campo più di centomila soldati, ed è irrealistico pensare di farlo ora che le forze Usa e della Nato sono ridotte a poche migliaia.
Eppure, dovrebbe esserci un modo di abbandonare meno umiliante. Biden ha spostato da maggio all’11 settembre 2021 – data fortemente simbolica – questo disimpegno. Un piccolo gesto per cercare di lasciarsi alle spalle una situazione meno deteriorata, usando questi mesi per raggiungere un accordo politico onorevole con i taleban. Speranza che sembra rientrare nel novero delle illusioni. E poiché lasciano gli americani, lascia tutta la Nato. Compreso il nostro contingente, che in questi due decenni è stato una colonna dello sforzo della comunità internazionale per stabilizzare il Paese.
Quanti soldati sono stati inviati, e a decine sono morti per garantire questo giusto impegno, quanti civili abbiamo inserito nei programmi di cooperazione e solidarietà, quante donne abbiamo fatto sì che studiassero e assumessero ruoli fuori casa.
Ci ritireremo, quindi, mentendo a noi stessi, prima ancora che alle nostre opinioni pubbliche, quando diciamo che i taleban di oggi non sono più quelli di ieri e che almeno i più elementari diritti delle donne e le regole di base di una vita civile saranno garantiti. Infatti, la situazione delle province e dei villaggi rioccupati dai fanatici 'studenti del Corano' ci dice che nulla di tutto ciò viene assicurato. E che, venti anni dopo, l’impasto di fanatismo religioso e di brutali tradizioni tribali dei taleban non è cambiato di molto.
Ci ritireremo, insomma, cercando di attenuare la percezione di un fallimento da parte della più potente alleanza militare, la Nato, che non è riuscita a raggiungere gli obiettivi che si era dati e che avevamo promesso. Un fallimento doloroso, che verrà pagato ancora una volta dal popolo afghano.