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«Perdere così fa male all’anima…». Lo disse Petra Zublasing, alle Olimpiadi di Rio nel 2016, dopo aver sbagliato per due millimetri l’ultimo colpo nella gara della carabina da 10 metri. Anima, sconfitta, radiografie di successi mancati. Sono le più contorte e le più struggenti. L’altro ieri una di queste fotografie se la è autoprodotta Frank Chamizo, cubano d’Italia, uomo di lotta e di sentimento. Arriva ai Giochi sapendo di essere il più bravo del mondo, invece in semifinale trova un bielorusso col nome che sembra un codice fiscale, Kadzimahamedau, contro il quale non aveva mai perso. E infatti perde. Addio medaglia d’oro, e poi anche quella di bronzo: «Sono distrutto – dice appena riesce a raccattarsi – è il lavoro di una vita andato in fumo».
Storie di perdenti, a loro modo belle e coinvolgenti. E’ quando si perde che si capisce il senso profondo delle cose. Solo abitando un’Olimpiade si può capire quanta vita scorre dentro una gara andata male, una medaglia persa per un centesimo di secondo, o un’altra che se ne va per un voto malvagio. Si può vedere quanto possano tremare le mani a uno schermitore, un tiratore, un ginnasta quando sulla pedana o sul bersaglio ci sono quei cinque cerchi magnifici e maledetti. Si può sentire quanto fa male a un lottatore, un judoka, un pugile bruciare tutto nei tre minuti di un match. E percepire quanto sia forte la scossa che provoca un fotofinish che ti mette dietro, senza rimedio.
Sulla terra dei feroci e dei fanatici, questi Giochi però sono stati un’oasi: mai una protesta insensata, mai una sceneggiata cialtrona: perché loro sono atleti veri, gente abituata a soffrire. Conoscono lo sconforto dell’insuccesso, e lo praticano spesso. Ma solo dopo, quando avranno altri quattro anni per conviverci. Nel frattempo rendono onore a chi li ha battuti, riconoscono i meriti di chi ha fatto meglio di loro.
Prendete Nesthy Petecio, pugile, l’atleta filippina che ha battuto la nostra Irma Testa: in finale contro Sena Irie, giapponese, combatte come una leonessa. Il verdetto è incerto, i giudici invece dicono 5-0 per la sua avversaria: eccesso di compiacenza verso l’eroina di casa, succede spesso. L’angolo della filippina grida allo scandalo, lei no. Fa segno ai suoi che va bene così, non serve a nulla, non vuole macchiare la gioia dell’avversaria. Le alza il braccio, la applaude. Saluta e si congeda.
Si chiama semplicemente stile, forse. La parola che racconta meglio di tutti come siamo, anzi come riusciamo a essere nelle difficoltà, nelle emergenze e nelle pressioni, quando ci trasformiamo in un «sistema di sopravvivenza», come scrive Julian Barnes. Lì si capisce di che materiale siano fatti gli uomini e le donne. A volte basta un pensiero, una parola detta o non detta, perché lo stile è anche non dire quando è più opportuno tacere.
Lo hanno dimostrato anche Isaiah Jewett e Nijel Amos, che inseguono la finale degli 800 metri: americano il primo, del Botswana l’altro. Si tamponano in pista, cadono rovinosamente, Giochi finiti per entrambi. Potrebbero prendersi a sberle: colpa mia, colpa tua. Invece si danno la mano per alzarsi, zero parole: si abbracciano e camminando arrivano insieme al traguardo.
Sono fatti così, l’Olimpiade ne offre a mazzi di storie del genere. Capaci di vincere ma soprattutto di perdere. E allora viene in mente che sarebbe bello se potessimo essere come loro, anche solo per un quarto d’ora al giorno. Se sapessimo dire grazie. Se riuscissimo a essere concreti e seri, appassionati ma non fanatici. Se fossimo capaci di accettare un verdetto, anche doloroso: in famiglia, al lavoro, nello sport. Se potessimo mantenere quel tanto di ingenuità che ci permette di illuderci di avercela fatta, senza però precipitare nella depressione o nello sconforto quando scoprissimo che così non è. Se, insomma, sapessimo vincere e perdere con la stessa forza, compresa la debolezza. Se fossimo diversi.
Anche il giapponese Kanoa Igharashi, nomen omen, era quasi sicuro di vincere la medaglia più bella proprio sulla spiaggia dove era cresciuto facendo surf. Spunta un brasiliano però, Italo Ferreira, debuttante ai Giochi, e gli soffia l’oro sulla cresta dell’onda. Kanoa ci resta come uno che gli è appena passato un Tir sulla testa, ma è un attimo. Si asciuga la lacrima, vede che il suo avversario è in difficoltà con l’inglese mentre lo intervistano e corre in suo aiuto: «Hey man, sono qui, traduco io: è giusto che tutti ascoltino le tue parole, quelle del nuovo campione olimpico».
Gesti, facce, esempi. Non si vince il mondo così, ma certamente un poco lo si cambia.