Questa non è una favola di Natale, ma una storia vera. Accaduta il 24 dicembre di quarant’anni fa a Lioni, a un mese di distanza dal terremoto che, il 23 novembre precedente, aveva sconquassato l’Irpinia e un pezzo di Basilicata, mietendo migliaia di vittime. Lioni, seimila abitanti, era stato uno dei centri più colpiti: raso al suolo, doveva piangere 230 morti. Quando vi arrivammo, era più o meno la metà dicembre, la scena davanti a noi era apocalittica. Macerie ovunque, le case più antiche polverizzate, quelle più recenti ripiegate su sé stesse come tante fisarmoniche chiuse, un piano addosso all’altro e i piloni spariti. Come nel peggiore degli incubi.
Eravamo uno dei primi nuclei di volontari ad arrivare lì, dopo che militari e vigili del fuoco avevano finito di recuperare i corpi delle vittime. Una decina di scout di gruppi diversi di Roma, con padre Federico Lombardi (che conobbi in quell’occasione, e anni dopo l’avrei ritrovato prima direttore di Radio Vaticana e, poi, direttore della Sala Stampa vaticana) come assistente ecclesiastico. Entrammo in paese che era quasi l’imbrunire, in giro non si vedeva nessuno se non le ronde armate per prevenire gli sciacallaggi. Ci fu assegnata una grande tenda nella tendopoli eretta nel centro sportivo che però era anch’essa deserta, occupata solo da noi e qualche altro volontario. L’unico abitante di Lioni che trovammo era un signore di una settantina d’anni, con qualche rotella fuori posto, con il quale condividevamo la tenda. Faceva un freddo allucinante.
La mattina dopo un responsabile della Protezione civile ci spiegò un po’ la situazione, e non ci voleva molto a capire quale fosse, bastava guardarsi intorno. Fummo assegnati alla scuola, dove c’era il punto di distribuzione di abiti, scarpe, cappotti, coperte. Tutta roba usata, e in pessime condizioni. Strano: la sede del mio gruppo scout, a Roma, era uno dei due punti di raccolta degli aiuti, da dove ogni tre o quattro giorni partiva una colonna di camion militari verso i paesi terremotati, e le disposizioni della protezione civile per la raccolta erano state tassative: solo roba nuova. Che ci facevano allora lì quegli stracci puzzolenti? Ne parlai con gli altri, e iniziammo a frugare la scuola.
Avevamo tempo, anche perché, a parte una vecchietta, non si presentava nessuno. Nel tardo pomeriggio, attraverso una finestra, scoprimmo che nella palestra chiusa a chiave era stipata una montagna di scatoloni. Forzammo una porta, ed ecco dov’era la roba nuova, molti di quei colli tra l’altro venivano proprio dalla sede del mio gruppo. Fu un lavoro improbo, ma prima di chiudere tutto la roba usata era sparita. Quella sera, alla mensa gestita da un sindacato, dicemmo a tutti i militari e volontari che incontravamo di spargere la voce che dal giorno successivo sarebbe stata disponibile la roba nuova. Il mattino dopo cominciò ad arrivare qualcuno, donne anziane e bambini; poi verso mezzogiorno si affacciarono due uomini, che senza presentarsi ci dissero che tutto andava rimesso a posto come prima, e che bisognava dare prima la roba usata. Rispondemmo che l’avevamo bruciata. Se ne andarono, e la lenta processione di anziane e bambini riprese. Dopo un paio d’ore arrivarono due carabinieri armati, restarono con noi fino alla chiusura e alla fine ci scortarono alla tendopoli.
Il giorno dopo alla scuola ci andarono i militari, e noi fummo destinati ad altri servizi. A me e ad altri due toccò il recupero tra le macerie di un laboratorio degli attrezzi di un falegname, che voleva tornare a lavorare anche per dare una mano ai suoi compaesani. Ma dove sono tutti gli altri, gli chiedemmo. La risposta fu molto vaga: «Qui attorno, si cerca di sopravvivere». Potevamo scavare solo alla luce del giorno, e in quel dicembre gelido avevamo un sacco di tempo libero, diciamo. E siccome mancavano ormai pochi giorni a Natale, pensammo che per la notte della vigilia si sarebbe potuta organizzare una veglia, con inizio alle 21 e seguita dalla Messa, nella piazza di fronte alle rovine della chiesa.
Preparammo tutto, canti, letture, riflessioni. Io mi sarei occupato del fuoco, e c’era il problema della legna. Ci avevano detto che avremmo potuto utilizzare le grandi travi dei tetti, spezzate dal terremoto, ma il problema era come tagliarle e trasportarle, anche con l’aiuto dei militari era un lavoro mostruoso. Ci stavamo scervellando per cercare una soluzione quando, dal nulla, si materializzarono in piazza due camion del Genio militare tedesco che, afferrata al volo la situazione, in quattro e quattr’otto, tirarono fuori i loro attrezzi e segarono una quantità inimmaginabile di travi, mentre un’auto del sindacato girava per il paese deserto annunciando per quella sera, alla stessa ora, una tombola "con ricchi premi". Preparai il braciere, la pira e l’innesco; ero bravissimo con i fuochi da campo, ma uno di quelle dimensioni non l’avevo mai maneggiato, e un po’ mi intimoriva.
Alle nove di sera eravamo pronti, e accesi il fuoco. La fiamma si alzò per una decina di metri, illuminando a giorno quella notte di vigilia. Attaccammo un canto. Eravamo noi, i militari e i vigili del fuoco. Ma dopo un po’ qualcuno iniziò ad avvicinarsi. Sbucavano dall’ombra come fantasmi, a gruppetti, molti con una candela in mano. Poi una bambina entrò dentro al cerchio che s’era formato spontaneamente, e posò davanti all’altare da campo un disegno di Gesù bambino che nasceva tra le macerie del terremoto. Poco dopo fu la volta di un uomo, che in piedi davanti al fuoco recitò piangendo una poesia in dialetto. Non capivo una parola, ma bastava quella voce tremante a far sanguinare il cuore. Dopo fu un gruppo di donne a intonare una nenia, subito seguite da tutti i presenti. E poi ancora altri si fecero avanti, per dire preghiere, poesie, o semplicemente del loro dolore. I testi che avevamo preparato non servirono più.
La Messa iniziò a mezzanotte, e la gente non si mosse fino alla fine. E anche allora nessuno se ne voleva andare. Erano migliaia, e davanti alle macerie della chiesa illuminate dal fuoco si scambiavano gli auguri. In quella notte Lioni si era ritrovata. Buon Natale.