La pace è un dono dall’alto ma per diventare vita concreta, quotidiana, ha bisogno dell’impegno dell’uomo. Conta sulla sapiente pazienza dell’artigiano, sulla precisione dell’orologiaio, sulla maestria del sarto, chiamato a tessere un filo preziosissimo ma molto fragile. Può venirne un vestito di gala, un abitoprêt- àporter o una giacca di taglia sbagliata, che finirà dimenticata in fondo all’armadio. Più ancora che di estro e creatività chiede cura minuta, attenta ai dettagli, tenace nell’evitare che si formino nodi duri da sciogliere. Per questo, come in un puzzle, è importante l’ordine in cui si allineano i pezzi, serve il buon uso delle parole, sono decisivi i gesti.
La Chiesa lo sa e non a caso inserisce nella liturgia della Messa le due dimensioni dell’azione di pace, quella verticale che la invoca nella preghiera al Signore e una prospettiva più orizzontale, alimentata dallo scambio con i fratelli e le sorelle della comunità. Così dopo le parole del celebrante che prega Cristo di non guardare ai peccati, alle fragilità ma alla fede del suo popolo, il credente è invitato a scambiarsi una stretta di mano, un abbraccio con il vicino di banco. Quel piccolo gesto esprime la volontà di costruire insieme un mondo riconciliato, la rinuncia al desiderio di dominio, soprattutto la disponibilità ad accettare l’offerta che arriva da Dio, nei modi e nei tempi che ha stabilito. Non si comunica all’altro il nostro affetto o un vago richiamo sentimentale, ma la pace che nasce dalla Pasqua di Cristo.
Per questo, non conta tanto chi abbiamo accanto, conta la comune adesione allo stesso impegno, è come dire 'sì' a un invito rivolto a tutti e allo stesso tempo personalmente a ciascuno. Il Covid, le misure anti contagio hanno però messo in crisi quest’abitudine. In molte parrocchie non si dice neppure più 'Scambiatevi il dono della pace' secondo la formulazione del nuovo Messale. Per evitare vicinanze pericolose, si preferisce soprassedere, rinunciare a ogni contatto, magari limitarsi a recitare insieme, il celebrante e i fedeli, l’invocazione che precede il rito. Nessun dubbio che si tratti di un impoverimento, che si crei maggiore distanza, che si tolga un po’ di freschezza agli appuntamenti più significativi, e l’Eucaristia ne è il cuore stesso, che ritmano la vita della comunità. Ecco allora che i vescovi hanno deciso di ripristinare, per chi l’avesse eliminato, il gesto che simboleggia lo scambio. Con una piccola grande novità.
A partire dal 14 febbraio, infatti, recita il Comunicato finale del Consiglio permanente della Cei d’inverno, saremo invitati «a volgere gli occhi per intercettare quelli del vicino e ad accennare un inchino». «Guardarsi e prendere 'contatto visivo' » con l’altro augurandogli: 'La pace sia con te', «può essere – proseguono i pastori – un modo sobrio ed efficace per recuperare un gesto rituale ». Si dirà che in tante parrocchie già lo si fa. Ma quella che vorrebbe essere una critica si presta anche a una lettura opposta. Significa che chi è stato chiamato a guidare la Chiesa non segue un disegno personale, distante dalla vita reale, ma ascolta la sua gente, ne accetta i suggerimenti, condivide il desiderio di camminare insieme.
E poi il rituale ha un proprio valore in sé. Guardarsi negli occhi corrisponde a un abbassare la guardia, ad aprire i cancelli del cuore e inchinarsi è un 'no' chiaro e netto a ogni volontà di supremazia. Significa, come nella benedizione, riconoscere l’importanza dell’azione dello Spirito. Vuol dire essere pronti ad assecondare la sua fantasia, a usare il filo prezioso che ci offre. Per lavorarlo con la pazienza del sarto, con la precisione dell’orologiaio, con l’umiltà del bravo artigiano di pace.