Quei «paradisi» inferno d'Africa
giovedì 18 novembre 2021

Se ad occuparsene è anche il Fondo Monetario Internazionale, vuol dire che tutti si stan rendendo conto che il problema esiste ed è serio. Si tratta dell’aggiramento fiscale messo in atto dalle multinazionali minerarie che operano nei Paesi africani a sud del Sahel. Grosso modo una quindicina, se si escludono i produttori di petrolio. Secondo i dati del 2018, dieci dei maggiori Paesi minerari del mondo si trovano in Africa subsahariana per un fatturato complessivo annuale stimato in 350 miliardi di dollari: cobalto e tantalio nella Repubblica democratica del Congo, diamanti in Botswana, oro in Liberia, Burkina Faso e Tanzania, bauxite in Guinea, rame in Zambia, platino in Sudafrica, uranio in Namibia. L’Africa contribuisce all’incirca al 30% della produzione mondiale di questi minerali, ma con l’avvento dell’auto elettrica e delle altre tecnologie utili a ridurre la dipendenza dai combustibili fossili, l’Africa diventerà importante anche per grafite e manganese di cui sono particolarmente ricchi Gabon, Ghana, Mozambico, Madagascar e Zimbabwe.

Complessivamente, i minerali contribuiscono al 10% del prodotto lordo dei 15 Paesi ad alta intensità mineraria, mentre contribuiscono al 50% delle loro esportazioni. Le vere protagoniste, tuttavia, sono le multinazionali che si occupano dell’estrazione. Per avere un’idea del loro peso, basti dire che l’investimento effettuato da una di loro in una singola miniera di bauxite in Guinea è stato cinque volte più alto di tutti gli investimenti pubblici effettuati dal governo locale dal 2018 al 2020. Ma la ricchezza che le imprese minerarie lasciano nei Paesi di estrazione sono piuttosto limitate, intanto perché pagano bassi salari e poi perché riescono a evitare le tasse, trasferendo indebitamente i profitti in Paesi a bassa fiscalità.

Secondo una ricerca condotta dal Fondo Monetario Internazionale, gli Stati africani perdono ogni anno dai 470 ai 730 milioni di dollari a causa dell’evasione fiscale attuata da parte delle multinazionali minerarie. E questa sembra proprio essere solo la punta dell’iceberg. Le tecniche a disposizione dei grandi gruppi per spostare i profitti all’estero (il famoso profit shifting) sono varie, ma tutte basate sulla manipolazione di rapporti economici, a volte veri, a volte fasulli, instaurati con altre società controllate, localizzate in paradisi fiscali. Fra le più ricorrenti ci sono la sovrafatturazione di servizi ottenuti da filiali estere, la sottofatturazione di minerali venduti a filiali estere, l’adozione di alte penalità per inadempimenti contrattuali banali previsti al solo scopo di giustificare pagamenti verso l’estero.

Per esempio, in Liberia è stato documentato il caso di una multinazionale che nel contratto di vendita a una sua filiale domiciliata in un Paese a bassa fiscalità, aveva inserito una serie di clausole sulla qualità del minerale, sui tempi di consegna, sui tempi di trasporto, che si sarebbero puntualmente verificate, facendo scendere sensibilmente l’ammontare di denaro che la filiale estera avrebbe dovuto pagare. Ma una volta all’estero, il minerale sarebbe stato rivenduto ai normali prezzi di mercato, permettendo alla filiale di realizzare guadagni altissimi messi a bilancio nel paradiso fiscale. Il nome della multinazionale non è stato svelato, ma è stato appurato che per vari anni sono stati attuati abbattimenti di prezzo fino al 10% che hanno permesso al gruppo di trasferire profitti all’estero per vari miliardi di dollari.

Un’altra pratica abbastanza frequente è quella di aprire un rapporto di prestito fra l’impresa che estrae minerali e una finanziaria del gruppo domiciliata in un paradiso fiscale, in modo da poter giustificare il trasferimento legale di denaro sotto forma di interessi, solitamente fissati a tassi molto alti.

Il recente accordo raggiunto in seno al G20 di introdurre in tutti i Paesi del mondo un’imposta minima sui redditi da capitale del 15% dovrebbe aiutare a ridurre la piaga della fuga illegittima dei profitti. Quanto più si uniformano i regimi fiscali, tanto più viene meno l’interesse a spostare i capitali. E se ciò è salutare per i Paesi a economia avanzata, ancora di più lo è per i Paesi a basso reddito dove i bisogni sociali da soddisfare sono enormi. Basti dire che per raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile fissati per il 2030, ai Paesi del Sud mancano tutti gli anni 2.500 miliardi di dollari. Anche a causa dei mancati introiti fiscali provocati dalle indebite fughe dei profitti minerari. Certi «paradisi » sono in realtà l’«inferno» dei più poveri.

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