Ricominciamo dai numeri: trent’anni, ossia 1.560 settimane o, se preferite, 10.950 giorni, uno più uno meno. Tanto è durata la latitanza del boss siciliano Matteo Messina Denaro. E non è stata una vita da recluso, autoseppellito in un bunker sotterraneo come Michele Zagaria o in una villetta sperduta come i Lo Piccolo, sfamato a cicoria e ricotta in una masseria come Bernardo Provenzano, o ingobbito dentro un’intercapedine di una casa in costruzione, come non pochi ricercati di ‘ndrangheta. Per quel che si sta scoprendo in questi giorni, a parte qualche sortita in luoghi di vacanza, il sanguinario padrino castelvetranese potrebbe aver trascorso molti di quei quasi undicimila giorni senza spostarsi dalla sua Sicilia, fra Trapani e Palermo. Senza quasi nascondersi veramente, al massimo celandosi dietro fattezze modificate: un cappello, un paio d’occhiali fumé, un documento intestato a un’altra persona, per età e corporatura simile a lui.
Già perché il garbato ed elegante – a detta delle pazienti che con lui condividevano i cicli di terapia – geometra Andrea Bonafede (un «furto d’identità», come è stato definito, o più probabilmente un prestito compiacente) potrebbe essere solo l’ultimo personaggio da lui interpretato, di finzione in finzione, per poter vivere una vita riservata, ma alla luce del sole, fatta di passeggiate per strada, di acquisti nei negozi, di colazioni al bar e cene in trattoria, perfino di imprudenti selfie scattati in clinica, in una esistenza scandita, nell’ultima fase, da interventi chirurgici in un ospedale pubblico e da cure oncologiche in un nosocomio privato. Tutte attività che non possono essere portate avanti in un rifugio, tre metri sotto il pavimento.
Il fatto è, e pare banale dirlo, che per condurre quel genere di vita, nessun latitante per quanto potente può bastare a sé stesso. Per avere un documento falso ma valido, occorre che qualcuno lo falsifichi per te. Per riposare la notte in un appartamento sicuro, serve che qualcuno te lo metta a disposizione. Per prenotare una visita o un ciclo di cure, come ogni cittadino sa bene, è indispensabile un’impegnativa del medico curante. Professionalità di persone forzate al silenzio dalla paura, da reti amicali o da convenienze? Sia come sia, senza una coltre di omertà, parola logora e abusata ma purtroppo – è amaro constatarlo – ancora tristemente attuale, una latitanza non arriva al trentennio. Qualche anno fa, a chi le chiedeva perché durasse tanto la caccia al super boss, l’allora procuratrice aggiunta di Palermo Teresa Principato rispose senza peli sulla lingua, descrivendo la provincia trapanese come un «territorio in cui è molto difficile scindere il bene dal male», a causa di «un intricato amalgama tra criminalità mafiosa, massoneria deviata e imprenditori, professionisti, anche gente insospettabile».
Non solo: Principato ipotizzò pure «segnali di talpe che hanno riferito notizie a Messina Denaro sulle sue vicende giudiziarie. Ecco perché ritengo che il boss si sottragga con una certa facilità alle nostre ricerche». Da allora, a suon di inchieste, investigatori e magistrati hanno via via assottigliato le file di quell’esercito di fiancheggiatori. Era rimasta comunque una rete sufficiente a garantire al padrino di cambiare identità, curarsi e tornare tranquillo a casa ogni sera a Campobello di Mazara, nel singolare “disinteresse” di passanti e vicini di casa, fino al blitz dell’altro ieri. Ma cu mancia fa muddrichi, recita un detto siciliano, chi mangia fa briciole, ossia lascia piccole tracce, che a quanto pare sono bastate ai Carabinieri del Ros, novelli Pollicino, per arrivare a lui.
«Non c'è dubbio che lui abbia goduto di protezioni in passato, noi stiamo indagando sulle protezioni di adesso», considera il procuratore di Palermo Maurizio de Lucia, convinto che «c'è una fetta di borghesia mafiosa che certamente lo ha aiutato, su questo abbiamo contezza e ci sono in corso indagini». Chissà che le memorie dei telefoni cellulari, l’agenda e gli altri documenti trovati nei due covi finora scoperti a Campobello non aiutino a ricostruire almeno una parte di quella rete di silenzi e complicità.
Anche perché, con la cattura del boss, non è che sia crollato di colpo anche il suo impero miliardario di interessi illeciti, affari sporchi, riciclaggio e investimenti. Perché la medesima coperta d’omertà che finora lo aveva protetto, continua a proteggere le attività imprenditoriali che, dietro prestanome, portano rivoli di denaro alla sua cosca. In fondo non serve minacciare, se si può corrompere e assicurare ricchezza a molti. Insomma, è giusto e doveroso gioire per la cattura del Siccu. Ma non è dato sapere, al momento, se vorrà collaborare con la giustizia, rivelando segreti sulle stragi e decine di brutali omicidi.
E non è nemmeno detto che la cattura eccellente faccia incrinare quel muro di silenzi che ha reso possibile la sua vita trentennale da “fantasma”. La mafia ha subito un duro colpo, ma non è vinta. In questi decenni, va ricordato, la società civile ha sviluppato molti anticorpi. E gli onesti, in Sicilia e altrove, non sono soli né pochi, sono la maggioranza. Ma finché resisteranno sacche d’omertà e d’interesse, estirpare la malapianta resterà impresa non semplice.