Dopo 45 giorni ci sono ancora troppi misteri e silenzi sulla prima guerra africana dell’era del Covid, accesa nel Tigrai, a nord dell’Etiopia. Conflitto per il potere tra il primo ministro etiope Abiy Ahmed, Nobel per la Pace 2019, e i suoi predecessori del Fronte popolare di liberazione del Tigrai che governarono con il pugno di ferro fino al suo avvento nel 2018. Dopo due anni di lotte, il Tplf ha lasciato il governo e ha sfidato uno tra i premier più giovani d’Africa tenendo a settembre le elezioni regionali che su scala nazionale Abiy aveva rimandato per la pandemia. Si fronteggiano due visioni opposte. Abiy crede che lo sviluppo della lacerata Etiopia, un gigante africano, dipenda da una centralizzazione del potere. I tigrini, che sono il 6% della popolazione, sanno che questo li marginalizzerebbe e sono per lo status quo federale.
Quando le milizie tigrine hanno dato l’assalto a una base dell’esercito per prendere armi, il 4 novembre scorso è partita quella che Abiy ha definito una «operazione di polizia» che rischia invece di diventare una guerra etnica, infiammando l’intero Paese. Conflitto anche di propaganda sui social e in tv, oscurato da un blackout telefonico e informatico, dal blocco delle strade e dal divieto di accesso ai giornalisti. Sono tante le risposte che la comunità internazionale e tanti etiopi della diaspora tigrina attendono, mentre – checché si dica – proseguono i combattimenti.
Le Nazioni Unite stimano che vi siano 950mila sfollati, mentre oltre 50mila tigrini sono fuggiti in Sudan, nei campi profughi dove – punto che solo una commissione internazionale potrà chiarire – molti raccontano di stragi contro i civili compiute dalle due fazioni. Altro nodo, nonostante le smentite rituali del regime di Asmara e del governo di Addis Abeba, è la presenza di soldati eritrei con diverse divisioni segnalata da alcuni rapporti, a conferma del patto di ferro stretto dopo la pace del 2018 da Abiy Ahmed e Isaias Afewerki, l’arcinemico del Fronte tigrino e presidente del regime autocratico di Asmara, colpita due volte con missili lanciati dal Tigrai. Non sono inoltre state smentite le voci inquietanti della presa da parte di militari eritrei del campo di Shimelba, con il rimpatrio forzato di parecchi profughi in spregio del diritto internazionale.
C’è, poi, un ulteriore aspetto inquietante simboleggiato del mistero sul destino di Letesenbel Gidey, 22 anni, primatista mondiale dei 5.000 metri e medaglia d’argento agli ultimi mondiali di Doha nei 10.000. È l’emblema della condizione di migliaia di famiglie angosciate della diaspora etiopica, che dopo 45 giorni non sanno nulla dei propri cari. Per quanto riguarda i religiosi cattolici, dopo che nei giorni scorsi si erano diffuse notizie allarmanti sulla sorte del vescovo di Adigrat, Tesfay Medhin, è arrivata la conferma, attraverso don Mosè Zerai, che il presule sta bene. Senza un serio intervento della comunità internazionale, il conflitto rischia di allargarsi. Sono di questi giorni le notizie di scontri tra Etiopia e Sudan per questioni di confine.
Sudan ed Egitto sono contrapposti all’Etiopia nella vicenda della Grande diga del Rinascimento sul Nilo blu, che Addis Abeba vorrebbe attivare in fretta per risolvere il proprio deficit energetico, rischiando però di prosciugare i campi degli altri due Paesi. Il Cairo è inoltre sospettata di aver sostenuto la guerra del Tigrai. Il Corno d’Africa, dopo aver sfiorato la stabilità, in mezzo a una pandemia e al flagello delle locuste, sta drammaticamente abbandonando la via della pace.