L’unica cosa da non fare è alimentare colpevolmente l’autolesionismo, di cui noi italiani siamo maestri indiscussi: fare cioè del poco lusinghiero bollettino fornitoci ieri da Standard & Poor’s un pretesto per speculazioni politiche che nulla cambierebbero di un quadro macroeconomico già noto fin nei dettagli, facendo rassomigliare partiti, sindacati, imprese e governanti ai capponi di Renzo Tramaglino, che si beccano rabbiosi lungo la strada che li conduce da Azzeccagarbugli. Del quale – in casi come questo – si avverte nondimeno una sorta di imbarazzato bisogno: forse lui solo – con i suoi latinorum – saprebbe spiegarci come dal confortante ottimismo internazionale attorno alla riduzione del debito italiano nel triennio 2011-2014 siamo passati bruscamente a quello scarno verdetto che l’agenzia di rating ci infligge con parole corrosive e amare: «Il potenziale ingorgo politico potrebbe contribuire a un rilassamento nella gestione del debito pubblico. Come risultato, crediamo che le prospettive dell’Italia per ridurre il debito pubblico siano diminuite».In altri termini, pur confermando il rating A+, l’
outlook (ossia le prospettive future) passa da stabile a negativo. Negativo come quello spagnolo, greco, portoghese, ma se è per questo anche come quello giapponese e americano.Un verdetto che –
absit iniuria verbis – rischia di mettere la speculazione internazionale nella ghiotta prospettiva di sparare a zero sul debito sovrano italiano, così come è stato fatto per i '
Pigs' (velenoso acronimo di conio, occorre dirlo?, anglosassone – 'pigs' sta per 'maiali' – che designa Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna), il cui rischio terminale è ben rappresentato dal caso greco: declassato da Fitch di ben tre gradi giusto venerdì scorso ed ora a quota B+, con la prospettiva di un irrimediabile fallimento, altrimenti detto (ma banchieri e politici per scaramanzia evitano accuratamente di pronunciare quella parola) default.Ma davvero ci meritiamo una pagella così severa? Davvero – forti di una sostanziale continuità nelle politiche di bilancio che va da Padoa Schioppa a Tremonti – non contano nulla gli apprezzamenti del Fondo monetario internazionale, dell’Ocse, della Commissione europea? Davvero offriamo simili segnali di instabilità nonostante il rapporto deficit- Pil dell’Italia sia migliore di molti Stati dell’eurozona (4,6% contro 6%)e il trend del debito-Pil (certamente imbarazzante nel suo 119,1%) sia progredito molto più lentamente rispetto a quello dei Paesi in crisi di liquidità e solvibilità?
A sentire l’indiano Deven Sharma, presidente di Standard & Poor’s, «il rating da solo non influenza i mercati, noi non facciamo che azzeccare le previsioni». Se è per questo ne azzardiamo una anche noi: il rigore sui conti pubblici frenerà inevitabilmente la crescita, l’uno e l’altra insieme difficilmente si possono perseguire in mancanza di riforme strutturali. Eppure dietro queste pur importanti pagelle finanziarie ci sembra di intravedere qualcosa di molto più profondo, di cui le crisi dei debiti sovrani sono soltanto un aspetto. Stiamo parlando di una rigerarchizzazione all’interno delle nazioni europee, basata non tanto sulle ideologie, quanto sulle prospettive economiche: una sorta di nuova partizione – per non dire uno iato – fra Nord e Sud, fra il solido Settentrione e il debole Mezzogiorno, fra i 'Pigs' in affanno (ma aggiungiamoci pure Ungheria, Repubblica Ceca e Belgio) e il mondo germanico e scandinavo in piena espansione economica e anche politica. È presto per dire che da questo iato nasca la 'disunione d’Europa', ma è sotto gli occhi di tutti che due dei pilastri europei – quello di Schengen e quello di Maastricht, ovvero quello della libera circolazione delle persone e delle merci e quello della moneta unica – sono in crisi. Le domande a questo punto sono se ci attende una nuova stagione di sacrifici e se avremo motivi buoni per affrontarla con coesione e speranza. Vorremmo, insomma, capire se il pareggio di bilancio nel 2014 accompagnato da una lungimirante stagione riformatrice sia una meta raggiungibile. Noi – consapevoli di un Italia ancora dotata di energie creative, di un sistema bancario solido, di risparmio e di riserve del Tesoro vicine ai 40 miliardi di euro – crediamo di sì. Ma non ci chiamiamo Standard & Poor’s, purtroppo.