L'abate Antonio Genovesi - .
Anima dell’Economia civile, l’abate Antonio Genovese fu perseguitato per le sue idee L’usura è un grande male sociale perché riduce i più poveri a perdere ogni speranza. Su questa condizione va misurata la nostra civiltà, che lascia depredare i suoi figli e nipoti Mostrandosi irresponsabile Il mondo cattolico e meridiano moderno ha generato anche una sua idea di economia, diversa in molti aspetti da quella del capitalismo nordico e protestante. La reazione della Chiesa di Roma allo scisma luterano rafforzò e amplificò alcune dimensioni del mercato e della finanza già presenti nel Medioevo, e ne creò ex-novo altre. Nella serie “La terra del noi” Luigino Bruni propone una riflessione sulle origini e sulle radici del capitalismo e della società nell’età della Controriforma.
I dibattiti attorno all’usura, che hanno accompagnato molti secoli della storia europea, sono la punta di un iceberg molto profondo e vasto, che riguarda direttamente il bene comune, i poveri e la giustizia sociale. Non era, né è, una faccenda per soli specialisti di finanza o di etica economica, ma il cuore del patto sociale, e quindi della vita e della tenuta delle comunità. Non deve quindi stupirci che di usura hanno sempre scritto non solo economisti e teologi ma anche filosofi, letterati, umanisti. La Riforma di Lutero, e la conseguente Controriforma cattolica, condizionarono molto anche l’etica economica e l’atteggiamento nei confronti dell’usura. I teologi e predicatori cattolici dalla seconda metà del Cinquecento, molto preoccupati, a tratti terrorizzati dagli effetti nefasti della libertà di coscienza individuale non mediata dall’autorità ecclesiastica, diedero vita a un capillare sistema di controllo di tutte quelle azioni eticamente sensibili, tra questa quelle relative all’economia e alla finanza. E così, più o meno intenzionalmente, la dottrina sulle usure (e in generale sulla libertà d’impresa e sui profitti) regredì di almeno quattro secoli. Dimenticarono le riflessioni dei maestri francescani e riportarono il tenore e il livello di dibattiti e divieti su interessi e profitti a quelli che si leggevano nei trattati della fine del primo Millennio. La metà del Settecento conobbe una nuova età dell’oro dell’etica economica. Autori come Muratori o Genovesi ripresero il dibattito su profitti, moneta e interesse dove l’aveva lasciato l’Umanesimo civile, e scrissero pagine bellissime. Non dimenticarono i danni dell’usura, anzi, li studiarono molto, li combatterono, ma non dimenticarono neanche l’essenzialità del credito per una nuova società finalmente libera dai lacci del feudalesimo. E nacque l’Economia civile, uno dei capitoli più luminosi della storia italiana ed europea, e l’abate Genovesi ne fu l’anima.
Antonio Genovesi fu prima teologo e poi economista. Non ebbe vita facile con la Chiesa del suo tempo, che gli tolse l’insegnamento di teologia (1745) consigliandoli di passare alla cattedra di etica. Ricevette denunce di ateismo ed eresia, fu amatissimo dagli studenti e dalla gente, ma «fu perseguitato così ferocemente e oltre la morte se a evitare danni maggiori fu prudente seppellirlo di nascosto, senza lapide e con la pietosa “complicità” dei Cappuccini di Sant’Efremo Nuovo» (Lina Sansone Vagni, Studi e Ricerche Francescane 23, 1994). Le sue Lezioni di Economia civile furono messe all’Indice con decreto del 23 giugno 1817. Nella sua auto-biografia scriveva: « Io, che era cominciato a tediarmi di questi intrighi teologici e che cominciava ad avere in orrore studi sì turbolenti, e spesso sanguinosi, feci di più: mi ripresi i miei manoscritti, e deliberai permanentemente di non pensare più a queste materie» ( Autobiografia, lettere e altri scritti, p. 22). L e grandi difficoltà teologiche che Genovesi incontrò lo portarono a diventare economista, e a occupare per primo una cattedra di Economia. Insegnando, studiando e girando per il suo Regno di Napoli, scrisse pagine importanti anche sull’usura e sulla moneta, dove la sua competenza teologica e biblica gli fu essenziale. La sua sofferta carriera accademica forzatamente meticcia generò pagine stupende. Guardiamone qualcuna. Genovesi conosce bene, da teologo, le obiezioni filosofiche e teologiche al pagamento dell’interesse sul denaro – usura o interesse, che lui comunque distingue ( Lezioni, Vol. II, Cap. 13, §1) – ma sa che queste proibizioni astratte avevano complicato molto la vita ai mercanti onesti e avevano creato una cultura cattolica ipocrita, dove nessuno poteva prestare ma tutti prestavano e prendevano in prestito. Da qui la sua lotta tenace e libera per smascherare queste ipocrisie e modernizzare la sua gente di Napoli.
Il capolavoro teorico e retorico sull’usura e sul credito lo troviamo quando discute coi teologi, che chiama «i miei nemici»: «Ci si fanno dunque da’ teologi due difficoltà. 1. Che la dottrina delle usure ripugna alle dottrine bibliche. 2. Ch’è opposta all’autorità de’ padri e de’ teologi». Sulla seconda difficoltà rimanda «alla dotta opera, del fu marchese Maffei», dove si dimostra «che non è poi vero, che i padri e i teologi sieno tutti stati di questo loro sentimento, purché si sappia esporre lo stato della questione » (§ XIX). E poi affronta direttamente i teologi, con uno stile meraviglioso: «Vorrei esser in un concilio di quei dottissimi e santissimi padri e far loro due domande. 1. Se uno, che non ha bisogno, mi chiede un beneficio per puro lusso, per delizie, per avidità di ricchezza, son io, padri, obbligato a prestargliene? 2. E se io ho del bisogno, né posso vivere che con far valere il mio, posso a quest’uomo dire, fratello, soccorriamoci scambievolmente; io farò il piacer tuo con la mia roba, ma tu mi darai in contraccambio il prezzo corrente del comodato; posso, dico, fargli giustamente questa domanda? Finché io non oda la risposta di questo concilio alle mie due domande, ho per certo che né i padri né i teologi furono mai contrari all’usura ne’ termini della nostra questione» (§ XIX). Leggendo la qualità di questi antichi dibattiti aumenta la tristezza di fronte alla “qualità” dei nostri talk show. Quindi continua ed entra nel terreno dell’esegesi biblica, mostrandoci un Genovesi allievo di Erasmo e soprattutto del Muratori, veri pionieri dello studio scientifico e libero delle Scritture, che – vedremo – si spinge fino a rettificare le traduzioni ufficiali dei Vangeli: «Cominciamo dal Vecchio Testamento. La legge di Mosè nel Deuteronomio (23, 20) è: “ Non foeneraberis fratri tuo pauperi; foeneraberis alienigeno” (non darai in prestito a tuo fratello povero, farai prestito allo straniero). Esponghiamo questa legge. 1. Egli dà o lascia il diritto di dare a usura a quei che non erano Ebrei (quest’è l’alienigeno o straniero)». E da qui magistralmente conclude: « Dunque non ebbe l’usura come contraria al jus e alla legge di natura. Dio non annulla la legge di natura, perché Dio non può né annullare né smentire sé medesimo. 2. Proibisce di prestare a usura al fratello (Giudeo) povero» (§ 20). E così formula la sua teoria generale sul prestito e usura: « Dunque la proposizione principale è: tu hai il diritto di dare ad usura a’ tuoi fratelli; l’eccezione, posto che non sieno poveri ». (§ 20). Questa è la sua unica soluzione: la Bibbia proibisce l’interesse applicato ai prestiti ai poveri, ma non lo condanna in generale.
Dopo aver confutato i suoi critici che citavano l’Antico Testamento per negare ogni interesse, passa al Nuovo Testamento. Innanzitutto fa una operazione molto attuale e correttissima: legge il Vangelo insieme a tutta la Bibbia ebraica. Così la famosa frase di Luca sul prestare senza chiedere interesse (Lc 6,35), che i teologi usavano per condannare qualsiasi interesse, Genovesi la colloca dentro il discorso che ha appena fatto sul libro del Deuteronomio e quindi nel contesto del divieto di prestito a interesse al povero. Genovesi parafrasa Luca 6,35 ss. e ci offre una sua traduzione affascinante: «Voi non fate del bene, dice loro, che a coloro onde ne sperate. Il vostro principio è dunque, non si dee fare quel che non ci rende. Massima infame e che sovverte l’umanità. Tutt’i bricconi, gli scellerati, gli avidi, i ladri, ne fanno altrettanto. In che sarà dunque posta la grazia che vi si dee? Qual gratitudine meritate per ciò voi da Dio? Vedete questi pubblicani prestano a coloro, donde sperano più usure; sarete voi in niente da essi distinti, se farete anche voi a’ poveri di questi uncinati benefici per trarre a voi le loro sostanze? Dunque a voler esser giusti e virtuosi, siccome richiede l’Altissimo, e pretendere di esser chiamati suoi figli, amate anche i vostri nemici, fate loro del bene: prestate senza deludere i bisognosi e i poveri della speranza che hanno avuto nella vostra liberalità, e senza mettergli in disperazione» (§ 21). E ora arriva il suo vero colpo di genio (e di cultura). Da maestro di greco e latino, Genovesi dà ai suoi colleghi teologi una lezione, ancora attualissima e tutta da meditare. Vediamo come. Scrive: «Questo precetto è dunque conforme alla prima parte della legge del Deuteronomio. V’è niente che favorisca i nostri teologi?» (§ 21). Genovesi però si rende conto che ha fatto una traduzione con qualche elemento di libertà che può apparire intruso – cioè il suo discorso sui poveri e bisognosi. E scrive: « Ma rendiam ragione di alcune parole che io ho poste nella mia parafrasi, le quali da coloro che leggono le versioni, si crederanno per avventura intruse. Ho detto in prima che Gesù Cristo parli nel luogo presente de’ bisognosi e poveri, che non è espresso nel precetto» (§ 22). Genovesi sostiene che il riferimento del divieto sia rivolto ai poveri perché tale il contrasto originario nel Deuteronomio (che Luca implicitamente cita), e perché, aggiungo io, queste parole vengono dopo il discorso delle Beatitudini che si apre con «beati i poveri» (6, 20). Da notare poi che il testo latino della Bibbia (la Vulgata) in quel passaggio di Luca aveva la parola « indiget », cioè «bisognoso », «indigente», una parola che nella traduzione italiana è invece saltata.
Ma la parte più bella, davvero commovente, della sua esegesi coraggiosa e innovativa è sulla parola sperare. Le traduzioni correnti, a partire da quella latina della Vulgata, traducono apelpizo (la parola greca in Luca) con «senza sperare nulla» in cambio. Genovesi fa invece un’altra traduzione, che qui riporto interamente: « Ho messo: senza deludere i bisognosi e i poveri della speranza, che hanno avuto nella vostra liberalità, e senza mettergli in disperazione, perché, ancorché i compilatori delle varianti del Nuovo Testamento l’abbian omesso, certi critici sacri hanno osservato che essendo dunque accusativo mascolino, l’apelpizo viene ad esser preso in senso attivo, e vale a dire di non far disperare, nella qual forza trovasi usato da molti de’ migliori scrittori greci». E quindi propone di emendare anche la versione di Gerolamo (che qui recita « nihil inde sperantes »: prestate senza sperarne nulla): « La versione latina poteva essere: mutuum date, neminem desperare facientes » (§ 22), cioè: date in prestito, senza fare disperare nessuno! Per questo Genovesi conclude il suo ragionamento con queste parole: « Perché in questo precetto manifestamente si parla di prestare a’ poveri e perché è più convenevole al testo, leggere il verbo apelpizo in senso di non ridurre niuno alla disperazione» (§ 22). Stupendo! Quando, ormai molti anni fa, iniziai a studiare e a scrivere di economia, e poi di etica e infine di Bibbia, speravo che sarebbe arrivato un giorno quando avrei potuto trovare, capire, gustare e far gustare ad altri una pagina, difficile e bellissima, come questa di Genovesi. Magari la sua esegesi biblica non sarà la migliore né tantomeno l’unica, ma la sua esegesi economica di quei brani biblici resta insuperata e carica di speranza civile. L’usura è un grande male sociale perché riduce la gente, i poveri, alla disperazione. È la disperazione dei poveri il primo misuratore delle nostre usure, da quelle di alcune banche a quelle di una civiltà irresponsabile che depreda la terra e getta i suoi figli e nipoti nella disperazione.