Caro Marco Tarquinio,
Sergio Staino se n’è andato da poco più di tre mesi e io seguito a immaginarmelo da qualche parte lassù al cospetto di Dio...
«Caro Sergio, ben arrivato finalmente! Eh, lo credo che non te lo aspettavi di trovarmi qui. Pensi che non lo sappia che sei stato presidente dell’Unione Atei e Agnostici Razionalisti? Che tenerezza che mi fanno. Comunque, tutto sommato sei stato un brav’uomo e questo è quello che conta...
Certo, ti resta addosso il peso del tuo peccato più grave: aver creduto a personaggi poco raccomandabili... I falsi profeti! Ma come cosa intendo! Non hai creduto in me e hai creduto in Matteo Renzi! Ti rendi conto? Ti par poco? Sì d’accordo, poi ti sei pentito, come hai fatto con D’Alema – buono anche lui! –, ma quanto tempo ti c’è voluto per capire con chi avevi a che fare?
Comunque, ho letto il tuo fumetto su Avvenire “Hello Jesus” e mi è piaciuto. Bravo, complimenti! Mi fai venir voglia di rimandarvi il mio figliolo sulla Terra, guarda! Gliel’ho anche proposto, a Gesù... Non ti dico cosa m’ha risposto perché sono una persona educata. Povero Cristo, anche lui, ieri mi fa: “Oh babbo, ‘un mi vorrai mica rimandar davvero in Palestina? Di questi tempi poi! Se capito nelle mani di Netanyahu, altro che Via Crucis!”
“Guarda, Gesù, che anche se capiti nelle mani di Hamas, non penserai mica che ti vada meglio, eh!”
Comunque, Sergio, ti aspetto stasera a cena. E dopo cena, seratina di canzoni sotto le stelle con Pavarotti, John Lennon e Rino Gaetano. Non male, vero?
No, cantare tutti insieme è meglio di no, ti ho sentito una volta cantare le canzoni di Guccini e di Vecchioni e c’è da star male. Certo, quando quassù ci saranno Guccini e Vecchioni, canteranno le loro canzoni, ma c’è ancora parecchio tempo prima che tocchi a loro, te lo garantisco! E se mentre stasera John Lennon canta “Imagine”, la mia canzone preferita, ti metti a cantare insieme a lui e me la rovini, io ti mando all’Inferno quant’è vero Iddio, che poi son io! Per citare Guccini. O era Dario Fo... Mah. Va’ a saperlo... ».
Gentile Tarquinio,
ignoro perché sia sorto e diventato attuale il problema delle benedizioni alle coppie di fatto e omosessuali. Dimostra però che la Chiesa è attenta e sensibile nei riguardi delle persone che hanno complessi (e spesso dolorosi) problemi esistenziali. A me sembra però che il dibattito, in seno al mondo cattolico, parta da un approccio sbagliato. In fatto di benedizioni, sarebbe opportuno ricordare che, forse poco meno di tremila anni fa, il Signore (nell’ originale ebraico è scritto con il Tetragramma) disse: « Voi benedirete così gli Israeliti; direte loro: Ti benedica il Signore e ti protegga. Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio. Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace». (Numeri 6, 23-27). Il Sacerdote invoca la benedizione, ma è il Signore che benedice. Noi dovremmo anche interrogarci se è stato un “errore” abbandonare la procedura biblica. Ignoro se nella tradizione ebraica e nelle sue eventuali funzioni religiose questa benedizione fosse rivolta a “singole persone” o al popolo. È però probabile che lo “Spirito biblico delle benedizioni” fosse orientato ad una moderazione delle stesse. Quello che è certo, però, che sia nell’ebraismo sia nel cristianesimo, è la comunità a essere al centro della vita religiosa e non l’individuo. Personalmente sono dell’avviso che sia opportuno non porre limiti alla Misericordia all’Amore e al Perdono del Signore.
Gentile Tarquinio,
sono credente e praticante cattolico, oltre che lettore di “Avvenire”, ma non posso nascondere lo sconcerto nell’aver sentito anche papa Francesco parlare di «inferno vuoto». Posto che il Signore garantisce la salvezza a chiunque si penta – «se anche il tuo peccato fosse come scarlatto...» – e pertanto nulla sappiamo se vi siano anime dannate in eterno, mi piacerebbe chiedere a Papa Francesco se pensa che anche Satana e i tutti suoi angeli si trovano in Paradiso, perché solo così l’inferno risulterebbe effettivamente vuoto! Aaah... chi parla di «inferno vuoto» si riferisce alle anime degli umani... Ma, allora, chiunque lo dica o scriva anche il Papa, meglio scriverlo o dirlo chiaro! Un cordiale saluto.
Che cosa c’entra Sergio Staino con la benedizione che la Chiesa – su impulso del Papa e tra qualche obiezione (più o meno vibrante) di alcuni vescovi, sacerdoti e fedeli – invita a dare alle persone credenti che lo chiedono e che vivono situazioni matrimoniali irregolari (secondo Catechismo e, di conseguenza, Diritto canonico) oppure hanno scelto di dar vita a unioni con persone dello stesso sesso? Un bel nulla, direbbe Staino stesso, salvo poi tirar fuori una riflessione disegnata delle sue per dirci, che in fondo come tutti noi anche lui c’entra. Lui che, su tutt’altro piano, da non-credente, ha saputo ascoltare, abbracciare e interpretare Gesù con umana simpatia e vibrante passione per gli irregolari, i più poveri, i poco e male considerati. Così come c’entra Staino con l’inferno pieno o vuoto al quale qualcuno avrebbe voluto – e a parole l’ha fatto – mandare sia lui sia il sottoscritto per la collaborazione che avevamo inventato sulle pagine di “Avvenire”.
Sono passati poco più di tre mesi, dalla morte di Sergio, ai quali aggiungo gli altri lunghi mesi di telefono muto impostigli dalla malattia. E, lo ammetto, mi mancano le sue chiamate improvvise: “Ma hai sentito quello che ha detto oggi il Papa? ...”, “Ciao, quel che sta succedendo non si può proprio sopportare. Perché non facciamo…”. “Guarda un po’, quello che ho disegnato e ti ho mandato per mail… beh, è per un altro giornale! Ti brucia, eh?, non aver più in pagina la mia striscia!”. Brucia l’assenza. Brucia il silenzio. E dico grazie a Paolo Hendel per avermi inviato una lettera alla sua scanzonata e solare maniera, che rifà sentire la voce di Staino-Bobo-Jesus, prestando parole a Dio. La speranza è «una bambina da nulla», scrive Charles Peguy, ma è sempre più grande delle nostre presunzioni e riesce a esserlo pure delle paure e, appunto, delle assenze.
Poche sere fa, al Teatro Vittoria di Roma, ho seguito e ammirato Hendel nel suo leggero e intenso monologo sulla morte, la vecchiaia, la sofferenza e la lotta, l’amicizia e la solitudine, sull’ombra che sperimentiamo e sulla luce che vorremmo almeno all’ultimo momento dell’esistenza. Mi ha fatto sorridere, ridere e pensare e – senza averne pretesa – mi ha commosso. C’era Bobo-Staino seduto con lui alla foce di quel fiume di parole. E c’eravamo noi che veniamo da strade diverse e cerchiamo una piazza comune e che non ci rassegniamo all’idea di un mondo di opposte e contrapposte solitudini e maledizioni.
Riparto da qui, per ripetere che anch’io – come il lettore Zanatta – sono riconoscente a papa Francesco, che usa con decisione e delicatezza la sua autorevolezza e il suo dovere-potere di padre e che investe la sapienza della Chiesa, che è madre e maestra perché conosce e riconosce Dio ed è «esperta in umanità». Lo fa non per dirci che “tutto è uguale”, ma che siamo tutti uguali, tutti ugualmente figli e figlie, fratelli e sorelle. E per rammentarci, in questo tempo in cui troppi si sentono in diritto di sentenziare (e decidere) sulla vita degli altri, e male dicono, e male fanno, che benedire è benedetto. E che nessuno è escluso dall’amore di Dio, dall’amore che è Dio. Il vero grande compito che ci tocca è di provare a esserne all’altezza, con verità e senza arroganze.
L’inferno, infine. Come il Papa, anch’io credo che il male esista e che consegnarsi al male sia la via per l’inferno. Eppure, spero nella misericordia di Dio e nella salvezza per tutti, e lotto – tenendo dietro a Francesco – per sperare più fortemente. Questo solo mi sento di rispondere nella mia piccolezza al lettore Giobbi. Provo a spiegarmi. E uso prima di tutto le parole che Giuseppe Ungaretti rivolge a Cristo nella Roma del 1943, piagata dai rivolgimenti politici, dalle bombe, dalle stragi e dalla deportazione degli ebrei e in un mondo avvolto dalle fiamme spietate della guerra e dell’odio: «Vedo ora nella notte triste, imparo, / So che l’inferno s’apre sulla terra / Su misura di quanto / L’uomo si sottrae, folle, / Alla purezza della Tua passione». (“Mio fiume anche tu”, Il Dolore). Un’eco di questi versi c’è anche in ciò che ho detto il 29 dicembre 2023 alla Pro Civitate Christiana di Assisi e scritto il 2 gennaio 2024 qui su “Avvenire” e che forse ha contribuito, in qualche minima misura, a sconcertare il lettore: «Perdonare come perdona Dio significa credere che infine la Sua misericordia sarà così grande che l’inferno resterà vuoto. E anche aver chiaro che Cristo non scherza quando ci dice e ci ripete del “pianto e stridor di denti” (Mt 13,42) e del terribile esilio dall’amore che letteralmente esplode in chi non riconosce la Parola che si è fatta carne, e carne dei poveri. L’inferno comincia sulla terra, quando non vediamo e non amiamo Lui nell’uomo e nella donna più fragili, nella vita più indifesa. E la sostanza non cambia se chiamiamo quell’inferno un paradiso dove regnano legge e ordine».
Grandi teologi, proprio come papa Francesco, hanno riflettuto e riflettono sul punto. Io amo molto quello che argomentò Hans Urs von Balthasar (che spesso viene, grossolanamente, indicato come il grande assertore dell’«inferno vuoto»») per fondare la speranza della salvezza per tutti: l’inferno esiste per me e per ogni altro che non corrisponda all’amore di Dio, ed è una terribile possibilità, ma nessun uomo può dire di un altro uomo che è all’inferno. Noi non siamo Dio e, qui e ora, vediamo «come in uno specchio, in modo oscuro» (1 Cor 13, 12) Ma possiamo distinguere bene e male e capire che cosa stiamo compiendo e che cosa viene compiuto intorno a noi. E io tengo sempre cara la potente riflessione con cui Benedetto XVI (nel libro-intervista con Peter Seewald Luce del mondo) ci ammoniva sulla reale appartenenza alla Chiesa e al cammino della salvezza: «Già ai suoi tempi, sant’Agostino diceva: molti che sembrano stare dentro, sono fuori; e molti che sembrano stare fuori, sono dentro (...) il dentro e il fuori sono intrecciati misteriosamente». E un pensiero che dedico a me stesso, e a tutti gli amici che liberamente incontro sul cammino. A volte, come fa Paolo Hendel, si possono prestare parole a Dio, mai rubargli il mestiere, caso mai un po’ di amore.