Piovono pietre sulla convivenza interetnica nel Regno Unito, e purtroppo anche di peggio, fino agli incendi e agli assalti ad alberghi che ospitano rifugiati, moschee, negozi e ristoranti gestiti da persone di origine immigrata. E non si è trattato di un episodio isolato, bensì di attacchi condotti da folle di estremisti inferociti in diverse città, da Belfast a Middlesbrough, da Hull a Liverpool. Diversi agenti di polizia sono rimasti feriti, molte famiglie e pacifiche comunità sono state terrorizzate. Finora quasi 400 assalitori sono stati arrestati, e non sono mancate le contro-manifestazioni di solidarietà né le mobilitazioni di cittadini scesi in strada per ripulire i danni. La causa scatenante è stata l’omicidio di tre bambine in una scuola di danza, perpetrato da un diciassettenne nato in Galles da genitori di origine ruandese. Nel tam tam dell’odio in rete, l’assalitore è diventato un rifugiato musulmano arrivato con un barcone nel 2023. Tanto è bastato per far esplodere non una caccia all’uomo, ma una caccia alle minoranze riconoscibili, nel peggiore stile dei pogrom che hanno insanguinato la storia europea.
La vicenda, particolarmente drammatica per l’estensione delle sommosse, per il numero degli assalitori e per la vulnerabilità delle ancor più numerose vittime, è emblematica e inquietante per diversi motivi. Il primo è il passaggio dal caso individuale alla colpa collettiva, attivando i meccanismi dell’odio razziale che oggi si legittima come scontro di civiltà.
Proprio nel Paese che per primo ha codificato i diritti civili, la colpa di uno, in questo caso persino scollegato dalle comunità prese di mira, è attribuita a un intero gruppo sociale, mettendo insieme fra l’altro richiedenti asilo di recente arrivo e minoranze musulmane insediate da decenni. L’attacco omicida di un minorenne si trasforma nel pericolo di un’invasione da ricacciare. Il territorio è concepito come proprietà dei residenti storici: riecheggia la logica dello slogan “padroni a casa nostra”.
Il secondo aspetto è il passaggio dall’odio in rete all’odio in strada. In questo caso il capo-odiatore ha persino un’identità riconoscibile: noto con lo pseudonimo di Tommy Robinson, si chiama in realtà Christopher Yaxley-Lennon, pluripregiudicato per vari reati, tra cui incitamento alla violenza e diffusione di fake news contro i rifugiati, fuggito a Cipro per sottrarsi alla giustizia. X, ex-Twitter, dopo averlo sospeso lo ha riammesso, secondo la filosofia del nuovo proprietario Elon Musk, consentendogli di riprendere le sue campagne incendiarie. Ha 800.000 followers, di cui 200.000 guadagnati negli ultimi giorni: difficile sostenere che si tratti di un invasato senza seguito. La destra estremista oggi non è necessariamente guidata da leader politici e attivisti organizzati, ma può assumere le forme fluide e inafferrabili delle mobilitazioni lanciate in rete e condotte da influencer.
Il terzo problema è il passaggio da una lotta politica responsabile, capace di darsi dei limiti nella ricerca del consenso, a una lotta politica che non ammette né limiti, né responsabilità. Sappiamo quanto fake news, campagne d’odio, messaggi emozionali a tinte forti abbiano contribuito al successo dei populismi. Oggi nel Regno Unito tutti prendono le distanze dagli estremisti anti-immigrati. Basta però rileggere qualche slogan della campagna elettorale dei mesi scorsi per accorgersi che i violenti non sono usciti dal nulla, ma hanno tradotto in pratica quanto hanno appreso dai loro (cattivi) maestri.
Il governo Starmer ha annunciato incontri con i giganti del web per elaborare una strategia di contrasto dell’odio in rete, promesso una repressione durissima per le rivolte, annunciato maggiore protezione per le moschee. Tutto giusto, ma tardivo e insufficiente. L’odio razziale va affrontato in profondità, a diversi livelli, e non solo con la repressione, prima che produca spaccature insanabili nelle società meticce e plurali in cui oggi tutti siamo chiamati a convivere.
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