Per futili motivi, a seguito di una banalissima discussione, a me e mia moglie in cima ai vari insulti ci è stato dato dei «Morti di fame». La persona che ci ha rivolto questa, presunta, offesa abita a cento metri da noi, fa parte dello stesso identico tessuto sociale. E noi, esattamente come il nostro urlante giudice, non viviamo certo ai Parioli a Roma, o, che so, in via Montenapoleone a Milano. Il mio è un piccolo paese, una volta di contadini, oggi di lavoratori. «Morti di fame». Per avvalorare la tesi, il nostro interlocutore fa esempi concreti sulla nostra infame condizione economica, cita «buoni mensa mai pagati » perché in paese si sa sempre tutto di tutti… «Morti di fame».
Io sono rimasto su quelle parole, tra i vari epiteti ricevuti non mi era ancora capitato, mentre il gentile vicino di casa continua l’elenco di ingiurie e minacce. Ci ragiono a fondo, alla fine, quasi con il sorriso, non posso negarlo a me stesso. Lo ammetto. È vero. Sono un morto di fame. Ho un’utilitaria scassata, un mutuo che finirà quando viaggeremo per l’universo, una famiglia intera che regge su un unico stipendio. Il mio.
Ed è altrettanto vero, ammetto anche questo, qualche anno fa abbiamo passato un periodo di ristrettezze in cui anche pagare i citati buoni mensa, o il bollo dell’auto, era purtroppo impossibile. Ahimè, appartengo a quella fascia di famiglie italiane né ricche ma nemmeno troppo povere, quindi non abbiamo mai avuto diritto ad aiuti o agevolazioni.
Altro discorso poi è come vengono destinati gli aiuti, quanti lavoratori in nero hanno accesso a ciò che non gli spetterebbe, ma andremmo troppo lontano. Il nostro interlocutore continua, vorrei dirgli tante cose, ma non ci riesco. Gli vorrei dire che anche io, sino ai tredici, quattordici anni ho dato importanza alle apparenze, ma che poi mi sono fatto prendere e comandare dalle passioni, passioni che hanno spalancato il mio punto di vista del mondo.
La poesia. La letteratura. La curiosità verso tutto ciò che è umano. Grazie a queste passioni, con sacrificio e dedizione, ho costruito la mia vita, fatta di scrittura, libri, ma mai come esercizi fini a se stessi. Se ho scritto e pubblicato, in fondo, è proprio per testimoniare a più gente possibile, tra cui anche la persona che ora mi sta offendendo, che non esistono divisioni possibili, che il genere umano è uno, che ricchezza e povertà, esattamente come tante ingiustizie, sono create ad arte, ma che di fronte ai nuclei veri della vita siamo tutti sulla stessa enorme barca.
Non di meno, gli vorrei raccontare che in questo meraviglioso paese dove viviamo entrambi, sino a qualche tempo fa tra «Morti di fame» si faceva comunità, ci si aiutava addirittura, perché ben altra residenza aveva la compassione, o la solidarietà, tutti sentimenti che iniziano a diventare un ingombro inutile, un mobilio del passato che non vorremmo nemmeno più vedere. Perché è questo il sentire dominante degli anni che viviamo: chi è indietro, nella difficoltà, chi allunga una mano per chiedere, è una zavorra al progresso, al benessere degli altri. Ma più di tutto, gli vorrei dire che quell’ingiuria lanciata come una martellata è il più bell’augurio che ci potesse fare. Perché la speranza più alta resta sempre la stessa. Che gli ultimi, i morti di fame, arrivino per primi…