Ma chi sta vincendo la guerra civile che da settimane sta sconvolgendo la Libia? La risposta più facile è più vera è che per ora sappiamo solo chi la sta perdendo: il popolo libico nel suo complesso, che si ritrova a pagare un conto salatissimo alla sua aspirazione di libertà. Gheddafi non è Mubarak e neppure Ben Ali: non ha la grandezza tragica del primo e l’opportunismo da ladruncolo del secondo. È un megalomane sanguinario che non ha esitato e non esiterà a mettere in campo tutte le risorse di cui dispone pur di continuare a essere il padrone assoluto del Paese. Dal suo punto di vista, non ha neppure alternative: dopo l’improvvida richiesta di processarlo di fronte al Tribunale penale internazionale, e sempre che non voglia trascorrere i suoi ultimi anni sotto la protezione dei suoi amici Mugabe e Chavez, deve tentare di vincere. I ribelli appaiono motivati da un’esasperazione crescente, esacerbata dalle stragi commesse dagli uomini del colonnello e, almeno finora, ancora galvanizzati dal successo apparentemente arriso alle rivoluzioni tunisina ed egiziana. Ma temono, senza un aiuto esterno, di venire inevitabilmente schiacciati. Nel frattempo, si torna a parlare di no– fly zone o di altri non meglio identificati interventi militari (lo ha fatto il Segretario generale della Nato Rasmussen), mentre Obama spera che prima o poi i sauditi si convincano ad armare i ribelli. Il problema è che, senza una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che lo autorizzi, qualunque ipotesi di intervento militare (compresa la no–fly zone) ci farebbe ripiombare in una situazione simile a quella che si determinò in occasione della guerra in Kosovo. Non perché oggi ci sia un popolo che chiede l’indipendenza da un governo tirannico e straniero come avvenne in Kosovo, né tanto meno perché nessuno intenda trasformare la Libia in un protettorato della Ue. Ma perché si riprodurrebbe, come allora, la spaccatura della comunità internazionale, con un fronte occidentale contrapposto a Cina e Russia, molti Paesi arabi e africani e sicuramente altrettanti dell’America latina e dell’Asia. Era una situazione già difficile nel corso degli anni 90, quando gli Stati Uniti sembravano destinati a restare a lungo la superpotenza solitaria, senza nessuno che apparisse desideroso e capace di sfidarli, e la Nato era il braccio politico–militare dell’Occidente vittorioso. Sarebbe una prospettiva insostenibile oggi, con l’influenza Usa in drammatico calo, tanto più dopo la guerra in Iraq e nel perdurare del conflitto afghano. Anche la possibilità di sigillare dal cielo quei confini meridionali da cui provengono armi e mercenari per Gheddafi appare di improbabile realizzazione. Le ricorrenti stragi di “vittime collaterali” causate in Afghanistan ci dovrebbero ricordare come sia concretamente difficile distinguere un convoglio di mercenari da una carovana di profughi. In quanto alla prospettiva di armare, i ribelli evitando così un intervento diretto, anche qui la lezione afghana dovrebbe invitare alla prudenza. Le armi, una volta consegnate, cominciano una vita propria, e nell’attuale situazione di caos e incertezza non è per nulla detto che non finiscano nelle mani sbagliate. Oltre tutto, a giudicare dalle confuse notizie che giungono d’oltremare, i ribelli si starebbero rafforzando sul piano militare attingendo ai depositi del regime e pur senza aviazione e privi di mezzi corazzati stanno comunque tenendo testa alle truppe lealiste. Non è dunque di armi che hanno principalmente bisogno, ma di sostegno politico e diplomatico: occidentale, certo, ma ancor di più di Lega araba e Unione africana, finora piuttosto silenziose. Che qualcuno in Libia invochi l’intervento armato occidentale è più che possibile, ma prima di fare qualunque passo occorre forse ricordare che troppe volte, dopo, si è scoperto che queste voci erano poche, isolate e di scarsa rappresentanza. Mentre l’azione occidentale potrebbe polarizzare contro di noi il quadro politico libico e regionale, a partire da quegli attori che chiedono che il destino della Libia sia lasciato nelle mani dei libici, costi quel che costi.