I festeggiamenti per la tregua a Gaza - Reuters
Tolti alcuni dettagli, l’accordo tra Israele e Hamas non sembra molto diverso dalla “quasi intesa” di otto mesi fa, quando i miliziani sostenevano di avere accettato la proposta americana accusando Tel Aviv di aver prima tergiversato e poi voltato le spalle ai mediatori. La leadership israeliana aveva risposto muovendo ad Hamas le stesse accuse: «I terroristi non mantengono la parola e pongono sempre nuove e non concordate condizioni».
Oltre a domandarsi chi avesse sabotato gli accordi, occorre chiedersi cosa è cambiato in questi lunghi mesi di guerra? Gli ostaggi sono rimasti nelle mani dei terroristi, ed è probabile che un certo numero di loro nel frattempo sia stato deliberatamente ucciso, mentre altri hanno perso la vita a causa delle dure condizioni della prigionia e dei martellanti bombardamenti che già avevano decimato l’originario numero di civili e militari tenuti in catene da Hamas e dalle altre fazioni combattenti nella Striscia. Il numero di morti a Gaza non ha conosciuto alcuna tregua. Secondo le autorità di Hamas, che ancora controllano quel che rimane delle istituzioni palestinesi nella Striscia, si è oramai vicini ai 50mila morti, in buona parte civili disarmati, e tra essi migliaia di donne e bambini. Molti di più sono i mutilati mentre quasi nessuno a Gaza è rimasto a casa propria per tutto il tempo del conflitto, trasformando la lingua di terra palestinese tra Israele ed Egitto in un immenso campo profughi senza vere aree sicure dove trovare riparo alla larga dal fuoco incrociato.
Organizzazioni umanitarie e centri studi per analisi forensi, basandosi su immagini satellitari e informazioni sul terreno, preconizzano una mattanza superiore ai pur contestati (da Israele) numeri forniti da Hamas. Sui media transitano le voci degli immancabili dietrologi che si domandano se per caso non vi fosse da tempo un accordo sotterraneo tra Netanyahu e Trump perché Israele potesse continuare a combattere senza troppi bastoni tra le ruote. Del perché ci siano voluti altri 250 giorni per concludere un negoziato, circolano varie ipotesi. A cominciare dall’imminente arrivo di Trump alla Casa Bianca. Nel frattempo si era aperta la crisi militare con il Libano, ci sono stati almeno due scontri militari a distanza con l’Iran, le operazioni dell’intelligence israeliana contro Hezbollah, Hamas e Iran, infine la caduta di Assad in Siria.
C’è però una voce non smentita, giunta dall’interno del governo israeliano, che rivendica di aver a lungo sabotato l’intesa. È quella del ministro della Sicurezza nazionale Ben Gvir, esponente dell’estrema destra israeliana. «Nell’ultimo anno, attraverso il nostro potere politico, siamo riusciti a impedire, ripetutamente, che questo accordo venisse portato a termine». Ben Gvir, che neanche stavolta ha approvato l’intesa, è rimasto al governo per tutto questo tempo. Chi è stato allontanato è Yoav Gallant, fino a pochi mesi fa ministro della difesa e coindagato con Netanyahu nell’inchiesta sui presunti crimini israeliani (separata ma parallela all’indagine sui crimini di Hamas) condotta dalla Corte penale internazionale. Dopo essere stato cacciato, Gallant aveva dichiarato che Israele già in luglio aveva raggiunto tutti i suoi obiettivi a Gaza, rimproverando l’ostinazione di Netanyahu. Mesi di detenzione per gli ostaggi e di stragi per i palestinesi di Gaza che si sarebbero potuti evitare. Non è un caso che in queste ore all’Aja guardino anche a quello che succede in Italia. Dove il ministro degli esteri israeliano Gideon Sa’ar, che tra gli altri ha incontrato il ministro della Giustizia Carlo Nordio, sarebbe venuto a chiedere un salvacondotto per Netanyahu, ricercato in campo internazionale, nel caso in cui si recasse nella città che ha dato il nome all’atto costitutivo del tribunale internazionale: lo “Statuto di Roma”.
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