Gentile direttore,
nell’analisi intitolata «Autonomia differenziata esplosiva se toglie ai poveri per dare ai ricchi» pubblicata su Avvenire dell’11 ottobre, Roberto Petrini sostiene che i progetti di autonomia differenziata di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna daranno origine, se realizzati, a ulteriori sperequazioni tra Nord e Sud.
La ragione è presto detta: il calcolo per distribuire le risorse da destinarsi alle Regioni a cui vengono riconosciute ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia in attuazione dell’art. 116, comma 3, della Costituzione potrebbe fondarsi sulla spesa statale media pro-capite nazionale. Visto che essa è più alta nel Mezzogiorno ne deriverebbero trasferimenti dalla parte meno ricca alla parte più ricca del Paese.
Si tratta di uno scenario che non può realizzarsi per motivi di carattere tecnico connessi a una fondamentale circostanza: le Regioni chiedono da sempre allo Stato di abbandonare l’iniquo criterio della spesa storica in attuazione dell’art. 1 della legge sul cosiddetto federalismo fiscale, la 42/2009, per giungere alla determinazione dei fabbisogni e costi standard. Il calcolo sulla base del costo medio non è quindi l’obiettivo delle trattative.
Si tratta tutt’al più di un incentivo a fronte dell’inerzia dello Stato, il quale non è ancora giunto, dopo oltre 10 anni, alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni per i diritti che danno corpo alla cittadinanza. Preferire la spesa storica per un’asserita difficoltà di determinazione dei fabbisogni- costi standard, si porrebbe non solo in conflitto con la già citata legge 42/2009, che dà attuazione all’art. 119 della Costituzione, ma anche con la presa d’atto, da tutti condivisa, che il criterio della spesa storica favorisce chi più ha sprecato e danneggia chi invece si è condotto in modo virtuoso, così contravvenendo in modo eclatante al principio di responsabilità.
Ma il punto più importante è un altro. L’attuale situazione, quella in cui, per dirla con Petrini, «in ogni Regione affluiscono risorse in base a una programmazione e criteri uniformi sul territorio nazionale », non ha attenuato l’endemico divario tra le diverse aree del Paese, che, anzi, va sempre più ampliandosi (a danno molto più dei « poveri» che dei «ricchi»). L’autonomia differenziata cerca di superare questo sconfortante stato delle cose: essa è il tentativo di meglio gestire funzioni oggi statali, con un guadagno netto non solo per i territori che si differenziano, ma anche per gli altri, i quali potranno contare sulle maggiori risorse che lo Stato avrà a disposizione grazie alla maggior crescita che l’esercizio più efficiente delle pubbliche funzioni è in grado di garantire.
Chi chiede l’autonomia non sta “battendo cassa”, ma scommette sul cambiamento di quell’impostazione culturale che sta danneggiando, da decenni, sia i territori meno sviluppati economicamente, che, pur destinatari di ingenti trasferimenti (50 miliardi l’anno secondo la Svimez), sprofondano in una crisi che sembra irreversibile, sia il Nord che, sottoposto a una formidabile stretta fiscale, cresce pochissimo. I fatti lo dicono in modo chiaro: non è il centralismo assistenzialista a garantire al meglio la solidarietà, ma, al contrario, il riconoscimento di spazi di autonomia a favore di chi è in grado di gestire con maggiore efficienza la cosa pubblica, liberando in tal modo risorse che rifluiscono, se ben governate, a vantaggio di tutti.
Giurista, Università di Trento