Il dibattito in corso sulla legalizzazione delle Dat (Disposizioni anticipate di trattamento) solleva il problema della morte come un diritto della persona, da riconoscere e tutelare legalmente. Se non nelle forme radicali ed estreme del suicidio ad libitum – 'la vita è mia e la chiudo quando voglio io' – almeno in quelle soft e contenute del suicidio inteso a mettere fine a una vita considerata non più degna di essere vissuta. Diritto connesso al principio di autodeterminazione, per il quale ciascuno è padrone e arbitro di sé e delle sue cose, di cui decide in tutta autonomia.
Diritto cui si può rinunciare, ma di cui a nessuno deve essere impedito di avvalersi. Il problema è l’oggetto di questo diritto: la soppressione della vita di una persona. Diritto arbitrario per il credente, per il quale la vita è dono di Dio, di cui il soggetto è custode e non padrone, ma anche per il non credente. Il motivo teologico infatti si salda con quello antropologico. La vita non è dell’ordine dell’avere: qualcosa che uno ha, e di cui dispone, ma dell’essere che uno è, e di cui non dispone. Io non ho una vita: io sono la mia vita. La persona è l’unico esistente con dignità di soggetto e non di oggetto, con valore 'in sé' e non derivato 'da altro', con natura di fine e non di mezzo.
Come tale irreificabile: non riducibile a cosa, e perciò a oggetto di diritto per nessuno. La persona è soggetto di diritto, mai oggetto. «La persona è il diritto sussistente», diceva Antonio Rosmini. La vita partecipa – è l’anima, il principio attivo – di questo diritto.
C’è pertanto un diritto alla vita, alla sua tutela e promozione, non un diritto sulla vita. Di qui la sua indisponibilità e inviolabilità anche per il soggetto, che priva di senso il diritto di morire. Disconoscere la differenza umana, riducendo la vita della persona a valore di cosa e di uso, di cui alla fine potersi disfare, non rappresenta un più, ma un meno di civiltà. Avremo maggiorato il principio di autodeterminazione, spinto fino al potere sulla vita, ma diminuito il principio di umanità. Un’autodeterminazione come puro potere di decisione, sganciato dall’ordine del bene e dei suoi obblighi, dal bene primo e basilare della vita, è un feticcio che narcotizza le libertà, abbandonandole alla loro solitudine.
Al punto cui siamo, le libertà non hanno bisogno di maggiorazioni di poteri, ma di consolidamenti valoriali. Altrimenti girano su se stesse in un vortice mortale, che le risucchia in quell’inconfessato cupio dissolvi che estingue il gusto della vita, tanto più quanto più questa è segnata dalla fragilità, dalla malattia, dalla disabilità, cui non si è più capaci di riconoscere e dare un senso.
E diventano insopportabili, tramontano le virtù di fiducia e di condivisione, come l’empatia, la compassione, la consolazione, nel loro significato originario e profondamente umano di enpaheia, sun-patheia, cumpassio, con-solatio: entrare nel pathos, nella passio, nella sofferenza e nella solitudine dell’altro, con-dividerla e far percepire anche in esse la bontà e la bellezza della vita. Unico argine a quel taedium vitae e libido moriendi che allignano in una cultura che perde logos e telos di significati, valori e orizzonti di vita. È una cultura, questa, che non sa proporre di più e meglio di un diritto a morire, rivendicato come indice di progresso e di modernità, fino alle apologie del suicidio, elogiato come supremo atto di libertà, con cui un individuo mette fine alla sua esistenza.
Elogio ingannevole, perché il suicidio non è mai affermazione di libertà, ma espressione d’infelicità. Rivendicazioni e plausi socialmente deludenti, per l’indebolimento progressivo del bene e dell’amore per la vita nell’immaginario delle coscienze, specialmente dei più giovani e dei più deboli. Ne è sintomo inquietante il possibile diffondersi, tra i teenagers, dell’ancora misteriosa sindrome della blue whale, che 'Avvenire' ha preso in esame nei suoi controversi aspetti in queste ultime settimane. Dire che non c’è una libertà per la morte non significa tuttavia perseguire la vita a ogni costo. Non c’è un diritto a morire volto a mettere fine alla vita. C’è però un diritto a morire bene. Tutti dobbiamo morire, ma non è detto che dobbiamo morire male.
C’è un diritto a morire con dignità umana e cristiana, volto a umanizzare il morire con la terapia del dolore e la rinuncia a mezzi di cura straordinari e sproporzionati. Rinunciare ai quali non vuol dire sopprimere la vita, ma accogliere e vivere la morte come l’ultimo atto della vita. Mettersi dalla parte della vita, dando ragione della sua inviolabilità, non porta a ergersi a giudici, in tutta fedeltà all’imperativo evangelico: «Non giudicate!». Chi conosce infatti il cuore dell’uomo,al confine critico tra la vita e la morte? «Solo Dio», è la risposta della Bibbia. Per questo la Chiesa affida al giudizio e alla misericordia di Dio chi arriva al gesto tragico della rinuncia alla vita.