Una terribile e inquietante coincidenza. Che speriamo resti solo una coincidenza. Venti anni fa, il 21 luglio 2001, decine di poliziotti fecero irruzione nella scuola Diaz di Genova che ospitava tante persone che avevano partecipato alle manifestazioni di contestazione del G8, sfociate in durissimi scontri e nella morte del giovane Carlo Giuliani, ucciso da un colpo di pistola sparato da un carabiniere 'sotto pressione'. Un’irruzione violentissima, «una macelleria messicana» la definì uno dei poliziotti che vi parteciparono, Michelangelo Fournier, all’epoca dei fatti vicequestore aggiunto del primo Reparto Mobile di Roma. Dopo venti anni abbiamo letto parole analoghe. «Un’orribile mattanza», ha infatti definito il Gip di Santa Maria Capua Vetere quanto accaduto il 6 aprile 2020 nel carcere della città casertana e che due giorni fa ha fatto finire in cella o agli arresti domiciliari decine di agenti penitenziari, accusati di «molteplici torture pluriaggravate ai danni di numerosi detenuti». Sì, proprio torture, parola che venne evocata anche per i fatti della Diaz.
Esagerazioni? Venti anni fa la vicenda si basò su testimonianze, sui referti medici, sulle indagini successive. Ma bastò per far condannare i responsabili, alcuni anche noti e brillanti investigatori. Questa volta le immagini delle violenze sono entrate con la loro forza diretta nei social e nelle televisioni. Immagini che non hanno bisogno di interpretazioni per spiegare o convincere. Immagini di violenza organizzata, non reazioni ad altre violenze. Ricordiamo. In quei giorni all’inizio della pandemia e del lockdown le carceri furono attraversate da proteste, spesso molto violente, causate dalle restrizioni per gli incontri coi familiari, ma anche dai timori dei detenuti di fronte al virus, in condizioni sicuramente non favorevoli, basti pensare il mai risolto sovraffollamento. Le violenze, ovviamente, sono sempre ingiustificate, da qualunque parte vengano. Ma ancora di più se vengono da rappresentanti delle istituzioni, in particolare delle Forze dell’ordine che dovrebbero combattere la violenza e non utilizzarla. Certo, alla violenza spesso è necessario rispondere con forza, ma questa non può e non deve diventare vendetta, umiliazione, sopraffazione. E ancora meno con modalità organizzate. Ed è invece quello che abbiamo visto nelle immagini delle telecamere del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Una violenza sistematica, a freddo, non come reazione ad altre violenze. Quelle due file di agenti tra i quali i detenuti erano costretti a passare per essere colpiti con calci, pugni e manganelli, ricorda più un lager che una struttura che la nostra Costituzione prevede destinata alla riabilitazione. O sembrano atteggiamenti dal clan criminale, da punizione contro lo sconfitto. Ma anche contro l’inerme, addirittura colpendo chi è a terra, o chi è stato fatto inginocchiare e addirittura chi è in carrozzina. Certo lo sappiamo bene, soprattutto noi di 'Avvenire' che al carcere dedichiamo tanti articoli e approfondimenti, che il lavoro degli agenti penitenziari non è facile, che la loro vita è quasi da detenuti, che spesso hanno a che fare con persone pericolose, violente, che non accettano le regole. Ma tutto questo non giustifica l’«orribile mattanza». Anche perché conosciamo bene, e lo abbiamo spesso raccontato su queste pagine, storie belle e positive che vengono dalle carceri. Storie che vedono protagonisti non solo cappellani, volontari, operatori, ma anche direttori e gli stessi agenti.
Un altro carcere è possibile. Per questo fanno ancor più male quelle immagini, quegli intollerabili fatti. E preoccupano. Perché altrettanto inquietanti sono stati i tentativi di depistare, di inquinare le prove, di creare prove false. Proprio come per la Diaz. Allora furono delle molotov portate nella scuola dagli stessi poliziotti e un falso accoltellamento. Oggi sono state spranghe o bastoni che dovevano comparire nelle celle per giustificare le violenze. Depistaggi che hanno visto come protagonisti non solo i semplici agenti, ma anche responsabili superiori. E non è certo tranquillizzante se il 'marcio' sale la catena di comando. Ora sarà la giustizia a individuare e sanzionare le responsabilità, e toccherà anche all’Amministrazione penitenziaria e allo stesso Ministero della Giustizia – ieri la ministra Cartabia è stata chiarissima – fare pulizia e chiedere scusa, non solo ai detenuti vittime della violenza ma anche ai tanti agenti che ogni giorno svolgono il loro difficile e importante lavoro con impegno, correttezza, passione e dignità.
La democrazia è anche riconoscere gli errori, per migliorarsi. Tacciano, invece, quei politici che subito hanno provato a buttare benzina sul fuoco, difendendo l’indifendibile, per un pugno di voti. Guardino meglio quelle immagini e si impegnino anche loro, in silenzio, perché non accada più.