Sono passati meno di 3 anni, pare ne siano trascorsi 30. Nell’Italia politica delineata dal voto del 4 marzo 2018 spiravano venti di ItalExit e nostalgie della lira. E dall’attrazione fatale tra il populismo marcato M5s e il sovranismo alla Salvini era nata la suggestione – poi stoppata dal Colle – di portare alla guida del Tesoro Paolo Savona, economista di valore e capofila del fronte euroscettico. Oggi siamo alla vigilia del varo di un governo guidato da Mario Draghi, un nome e un cognome che nell’immaginario collettivo fa rima con la parola "Europa". Da Savona a Draghi in 35 mesi. Un cambiamento di scena impressionante.
Il paradosso è che pienamente partecipi della svolta, coi loro cospicui gruppi parlamentari, sono di nuovo M5s e Lega. E sono di nuovo loro a determinare la natura del nascente esecutivo come un vero e proprio "governone" persino più dei partiti del tradizionale europeismo, abbandonando con dichiarazioni pubbliche, ufficiali e indelebili anni di posizioni anti-sistema. Senza infingimenti, a quanto pare.
Tra i pentastellati, colpisce che a indirizzare la "virata" sia stato Beppe Grillo in persona, calato a Roma per interloquire occhi negli occhi – e senza streaming – con colui che liquidava come il «banchiere di Francoforte» e per comunicare agli scontenti che le Cinquestelle brillano e brilleranno dove dice lui, costi quel che costi.
Nel caso di Salvini, poi, la "conversione" è così potente da spingerlo, ieri, ad accantonare anni e anni e anni di aspra propaganda anti-immigrati, riducendo il "core business" della sua ascesa politica a "tema divisivo" e quindi da mettere da parte nel nome del «bene comune» e dell’adesione ai concetti chiave dell’europeismo responsabile. Un’accelerazione quasi più prodigiosa di quella che lo condusse dal federalismo anti-unità al nazionalismo e al culto del Tricolore al posto del verde padano.
È l’inizio della stagione post-populista? È lecito immaginare un M5s che, con Giuseppe Conte leader, diventi il nuovo centro di un nuovo centro-sinistra (che ritrova il trattino), gamba ambientalista e moderata – udite, udite! – del polo progressista? È lecito immaginare un Matteo Salvini che sale sull’ultimo convoglio utile per tentare di non perdere la coincidenza col supertreno del popolarismo europeo, uscendo dalla scomoda contiguità coi lepenisti e gli altri neofascisti continentali, scommettendo sulla proverbiale scarsa memoria del Paese e lasciando in dote all’alleata-avversaria Giorgia Meloni fette di voto border line? È ancora presto, per dirlo.
Di certo ieri – e questo è il fatto – M5s e Lega hanno ammesso, pur senza ammetterlo, che le piattaforme con cui nel 2018 si sono presentate prima agli elettori e poi, per un anno circa, sul proscenio governativo non sono realizzabili e non perseguono l’interesse del Paese.
Per il momento M5s la mette sui temi, anzi su un solo tema ma pesante: ambiente e transizione energetica. Consapevole di non poter più condurre una battaglia su stili e malcostumi della politica, chiede di stare, forte degli attuali numeri parlamentari, nel cuore verde del Next Generation Eu. Il leader del Carroccio, invece, fa le scale tre alla volta verso il nuovo look da «responsabile», consapevole di portare scompiglio e nevrosi in un Pd schiacciato sull’inevitabilità del Sì a Draghi: se la Lega avrà ministri è da vedere e forse non è nemmeno il punto essenziale, ma già il riconoscimento di Draghi è per Salvini un risultato da incassare ed esibire.
In ogni caso la disinvoltura con cui M5s e Lega stanno conducendo la loro trasformazione non può archiviare perplessità e dubbi. Vien da temere che, con la stessa velocità con cui si è diventati europeisti e istituzionali, si possa tornare nazionalisti e "sfasciatori". Magari per cavalcare i pesanti effetti sociali della pandemia. La "svolta", quindi, ha bisogno di controprove durature. E il primo test sarà proprio l’affidabilità e serietà rispetto al "governo di servizio" che si appresta a mettere in campo Mario Draghi con un complesso sforzo di sintesi.