Angelina Merlin, detta Lina, maestra elementare di Pozzonovo in provincia di Padova, possedeva doti di tenacia e lungimiranza. Affrontò una battaglia durissima per scardinare quello che agli uomini benpensanti e perbenisti sembrava un diritto acquisito di generazione in generazione: comprare i corpi delle donne nelle "case chiuse". Unica signora confermata nella seconda legislatura repubblicana (1953/58), si narra che dopo 10 anni di burrascoso iter legislativo, l’ex partigiana socialista minacciò Pietro Nenni di fare i nomi dei «compagni proprietari di casini» se non avesse ordinato al partito di appoggiarla in Parlamento.
Ebbene, ieri la legge che porta il suo nome ha dimostrato ancora una volta, dopo 61 anni di onorato servizio, di costituire un argine sicuro contro l’ultimo goffo tentativo di trasformare le "escort" in lavoratrici autonome, imprenditrici di se stesse, felici di mantenersi con il frutto del proprio impegno e di avvalersi della collaborazione di ambiziosi intermediari. La Corte costituzionale ha rimesso ordine: la legge Merlin stabilisce che la prostituzione è un’attività in sé lecita, ma non dà scampo a chi la agevola o ne trae vantaggio.
C’è un equivoco, però, da cui occorre uscire: Lina Merlin pensava che le prostitute non dovessero essere punite per non infliggere un’ulteriore stigma a donne già segnate. Non voleva cioè che da vittime diventassero anche colpevoli. Non era certo sua intenzione – e per convincersene basta leggere il libro "Lettere dalle case chiuse", che scrisse con Carla Barberis (Voltolina), moglie del futuro presidente della Repubblica Sandro Pertini – difendere pseudo-libertà di vendersi, pseudo-autodeterminazioni femminili, pseudo-lavoratrici del sesso.
È vero, i tempi sono cambiati dal 1958. Esistono i centri massaggi, esistono i privé dei locali a luci rosse, esistono gli annunci sul web. Il sesso a pagamento è offerto ovunque, è cresciuta anche la prostituzione maschile. Ma la sostanza non è affatto mutata, né la domanda fondamentale: è libertà, questa? Esiste qualcuno che onestamente può pensare che, fatta salva qualche rara eccezione, esercitare la prostituzione sia una espressione di autodeterminazione? Non mistifichiamo la realtà. La prostituzione è sempre subordinazione e negazione della relazione. Non c’è esercizio di libertà sessuale in una prestazione offerta dietro compenso, perché lo scambio di denaro presuppone il potere del cliente di disporre a piacimento del corpo dell’altro. Occorre prendere atto che accostare la parola autodeterminazione, in particolare femminile, all’esercizio della prostituzione è del tutto fuorviante. Lo è soprattutto avviandoci all’8 marzo, giornata in cui tradizionalmente si esaltano le pari opportunità e la pari dignità tra uomo e donna. La prostituzione svilisce la persona, la rende merce, ed è un prodotto della diseguaglianza, il frutto più avvelenato, coriaceo e resistente della secolare subordinazione di un sesso all’altro. Alcuni Paesi, come la Francia e la Norvegia, tentano di scoraggiare la domanda e dunque il rapporto prostituente con leggi punitive nei confronti dei clienti. In Italia invece si fa strada l’idea di segno opposto, cioè di riaprire le 'case di tolleranza'. Un tuffo nel passato che rispecchia una visione maschilista, opprimente, cupa della sessualità e che renderebbe definitivamente schiave le ragazze già oscenamente sfruttate sui marciapiedi. E, infine, che dimostra come ci sia ancora bisogno della lungimiranza e della tenacia di Angelina Merlin.