Agenzia Romano Siciliani
I sostegni alla natalità funzionano? Ha senso, cioè, destinare risorse pubbliche per contrastare l’inverno demografico? Molti se lo chiedono, in particolare nei Paesi più ricchi, dove il calo delle nascite da oltre un decennio sembra diventato un fenomeno strutturale, anche a prescindere dalla quantità e dalla qualità degli aiuti concessi alle famiglie. La risposta non è semplice, perché all’origine della crisi della natalità ci sono questioni culturali, sociali, economiche, e pur trovando una base comune di motivazioni, ogni Paese fa storia a sé.
La preoccupazione per il calo dei bambini ha spinto diversi governi e leader politici - dalla Francia alla Corea del Sud, dagli Stati Uniti al Giappone fino all’Italia – a mettere in agenda il tema del declino demografico e in qualche caso a varare piani d’azioni con nuovi stanziamenti di risorse. Servirà? Secondo “L’Economist” no. Il settimanale britannico controllato dal gruppo Exor della famiglia Agnelli, considerato la bibbia del liberismo, ha condotto un’inchiesta nelle nazioni del mondo ricco per arrivare alla conclusione che «pagare le donne per avere più figli non funzionerà». Dunque, meglio adattarsi alla riduzione delle nascite alzando ulteriormente l’età pensionabile, favorendo l’immigrazione qualificata, puntando sull’innovazione e le nuove tecnologie.
L’inchiesta è interessante, perché nell’offrire una panoramica ad ampio raggio sul fenomeno, pur generalizzando molto, smonta alcuni luoghi comuni del racconto mediatico sulla denatalità, e nel farlo arriva a mostrare l’intelaiatura sulla quale si regge la cultura ostile alla concessione di aiuti alle famiglie, che non è la conseguenza di una lettura sociale, ma emanazione di un preciso pensiero economico.
Le nascite calano in tutto il mondo ricco
Il quadro di riferimento è noto: «I tassi di natalità stanno diminuendo quasi ovunque e il mondo ricco si trova ad affrontare una grave carenza di bambini», con tutti i problemi che questo comporta: se un tasso di fecondità di 2,1 figli per donna mantiene stabile la popolazione, 1,6 figli significa che ogni generazione sarà un quarto più ristretta di quella precedente, e in prospettiva le nazioni in crisi demografica potranno perdere dinamismo e forza militare, andare incontro a problemi finanziari, previdenziali e sanitari. Ed è vero: in questo momento nessuna ricetta sembra funzionare. Dunque ha senso continuare a spendere, o spendere ancora di più?
L’Economist porta molti elementi a favore di un disimpegno. In Corea del Sud, dal 2006 il governo ha speso più dell’1% del Pil all’anno, 270 miliardi di dollari in tutto, eppure il tasso di fecondità è di 0,7% figli per donna, e continua a calare. La Francia impiega dal 3,5 al 4% del suo Prodotto interno lordo (un record) in politiche “nataliste”, ma da anni continuano a nascere meno bambini. In Svezia, nonostante i programmi di assistenza all’infanzia tradizionalmente generosi il numero medio di figli per donna è inferiore a 1,7.
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Anche l’estensione dei congedi di maternità o paternità sembra non servire a molto, dato che stare troppo a casa con i figli tende a essere stigmatizzato sul posto di lavoro anche nel Nord Europa, dove i maschi che hanno usufruito di permessi hanno meno probabilità di avere un altro figlio perché non a tutti piace questa dimensione della paternità, e poi c’è il fatto che le donne si sono ormai abituate ai sostegni generosi. Molto più utile, argomenta L’Economist, potrebbe essere elargire somme di denaro o concedere incentivi fiscali, il problema è che costano troppo rispetto ai risultati: se si calcola quanti figli “aggiuntivi” hanno prodotto gli incentivi francesi negli ultimi dieci anni, escludendo cioè i bambini che sarebbero nati comunque, si arriva a due milioni di dollari a figlio.
È evidente che sostegni mal congegnati finiscano per andare solo a chi i figli li avrebbe comunque, ma proprio questo ultimo calcolo rivela il grande limite dell’analisi e della tesi che la guida. «La decisione di avere figli è personale e dovrebbe rimanere tale», sentenzia L’Economist, concludendo che «le politiche di incentivo alle nascite sono un errore costoso e socialmente retrogrado». Ok. Ma cosa hanno di diverso gli incentivi alle famiglie rispetto a quelli riservati a sostenere settori economici in difficoltà o imprese fuori mercato? Perché, cioè, il “laissez-faire” deve caratterizzare solo la dimensione famigliare, e gli “animal spirits” restare confinati nella sfera più intima?
La questione del sostegni ai poveri
Nel mondo ricco le persone desiderano più figli di quelli che riescono ad avere, e questo potrebbe essere considerato un fallimento delle società avanzate, ma per L’Economist il differenziale tra desiderio e realtà non si è ridotto rispetto al passato, dato che le persone oggi sognano comunque di avere meno figli di una volta. Sarà l’effetto del consumismo, sarà l’individualismo, la maggiore incertezza o un mutamento nelle aspettative, qui conta poco. Per il settimanale le politiche pubbliche non funzionano perché i governi hanno finora sbagliato la diagnosi del declino demografico, pensando che questa abbia origine dal fatto che le donne professioniste rimandano la possibilità di avere figli, e che dunque la questione sia dover scegliere tra lavoro e carriera.
La critica non è sbagliata, anzi, ma la generalizzazione non aiuta a contrastare la retorica superficiale di tanti racconti mediatici. Il problema vero con il quale fare i conti oggi è che nelle società più ricche la denatalità non riguarda più di tanto le persone della classe medio-alta, con istruzione superiore, perché nella realizzazione del loro percorso di carriera un figlio, o forse due, sono una concreta possibilità, sempre che lo si voglia. I figli che mancano sono invece quelli delle donne più giovani delle classi operaie, o più povere e meno istruite. L’Economist questo lo dice. Si può fare qualcosa, allora? La risposta è spiazzante: meglio di no, argomenta il settimanale, perché «i bambini in più che nascerebbero da politiche mirate, probabilmente non diventeranno quei professionisti in grado di incrementare la produttività tanto desiderata dai governi». Nascendo poveri, insomma, resterebbero poveri. E povere resterebbero le loro madri, giacché, come viene ricordato citando il caso americano, prima le donne hanno figli e meno guadagneranno in futuro. Chiaro il messaggio?
L’analisi ha un grosso limite soprattutto nel momento in cui cerca di trarre considerazioni generali scegliendo casi e dati da contesti molto diversi tra loro, funzionali a una determinata lettura della realtà. Tra gli 0,7 figli per donna in Corea del Sud e gli 1,7 della Svezia, ad esempio, c’è una grande differenza. Così come è difficile equiparare le ragioni della denatalità in Cina con quelle degli Stati Uniti. Invece, riuscire a portare il tasso di fecondità dell’Italia da 1,2 figli per donna a 1,4, assecondando i desideri delle persone, può essere determinante per le generazioni a venire, per le ambizioni dei giovani, per la felicità delle coppie che oggi devono compiere rinunce, o per le tante donne che ancora incontrano troppi ostacoli, nella società come sul lavoro; e può essere non così costoso come si dice, se si confrontano le spese per aiutare i genitori con quelle per i bonus all’edilizia, solo per fare un esempio a caso.
Perché gli aiuti alle famiglie possono funzionare
Da questo punto di vista, molto più interessante rispetto all’inchiesta dell’Economist è uno studio condotto da Lyman Stone ed Erin Wingerter per l’americano Institute for Family Studies sulle caratteristiche della bassa natalità nell’Europa del Sud. La ricerca rileva, correttamente, che «non esiste una politica che può essere attuata domani per aumentare in modo strutturale i tassi di fecondità», ma solo perché «le politiche che funzionano in un Paese non possono essere trapiantate in un altro». Quello che va bene in Francia, cioè, può non funzionare in Italia o Spagna.
I tassi di fecondità delle regioni vicine al confine meridionale francese - Institute for Family Studies
L’Ifs però non ha dubbi sul fatto che una buona politica “natalista”, fondata su approfonditi studi della realtà locale, e priva di condizionamenti ideologici, possa produrre effetti. E per dimostrarlo pubblica una cartina con i tassi di fecondità nelle province del Sud della Francia che confinano con quelle dell’Est della Spagna e del Nord-Ovest italiano. Nei territori francesi il numero medio di figli per donna è sempre superiore a 1,5 e arriva a 2, in Italia e Spagna spazia da 1 al massimo di 1,3. Basta superare il confine, insomma, e la dimensione della famiglia cambia. Come tra la Corsica, 1,4 figli, e la Sardegna, 1,1.
Qual è la differenza? La cultura? O le politiche? Probabilmente una cultura che si è formata anche in virtù delle scelte forti della politica. Ed è per questo che la Francia oggi può contare su una popolazione superiore di svariati milioni di persone rispetto a quello che sarebbe stato senza sostegni. Proprio guardando all’esempio francese, dove il contesto politico è stato a favore della natalità fin dagli anni ’30, varando riforme quasi mai messe in discussione, si capisce quale caratteristica fondamentale debba avere una buona politica demografica perché dia frutti. In pratica non si può affermare che gli incentivi alla natalità non funzionino o che costino troppo, ma che possono svolgere il loro lavoro se un intero Paese è d’accordo e ci si dà un obiettivo di decenni.
Il grande problema di oggi è che i governi non hanno pazienza, cercano risultati elettorali immediati, basti pensare alla politica dei bonus italiani, e la natalità continua a essere un tema divisivo. E così la cultura iperliberista può avere gioco facile nel suggerire di non pensare più agli aiuti alle famiglie. Meglio single, è il messaggio, perché non si chiedono congedi, si spende di più e si comprano beni con maggiori margini di profitto per chi li produce. E ai più poveri, nemmeno la gioia di un figlio. Se questo sia di destra o di sinistra non è facile da stabilire. Di sicuro è poco umano.