La sfida di questa epoca è disporre piazze e luoghi adatti alla vita all’aperto dove ora vi sono solo flussi di traffico. L’utopia torna a essere possibile in quanto è diventata necessaria alla sopravvivenza Bruxelles ha annunciato un piano decennale per rinverdire l’Europa. Tra le molte proposte: tre miliardi di nuove piante
Abbiamo visto le strade vuote e gli ospedali pieni. E abbiamo compreso che probabilmente v’è una relazione tra inquinamento atmosferico e difficoltà nel difendersi dal virus; è possibile infatti che il forte impatto del Covid–19 nel cuore della Valle Padana sia dovuto anche all’elevato tasso di inquinamento atmosferico lì presente. Ne deriva che bisogna elaborare una nuova igiene urbana: perché ormai tutto il mondo è città, e tanto più lo sarà in futuro.
Se già negli anni ‘60 del XX secolo l’urbanista Costantinos Dioxadis avvertiva che l’Europa si stava trasformando in “eperopoli”, una città–continente, oggi si prevede che tra trent’anni in aree metropolitane vivranno tre quarti di una popolazione mondiale cresciuta a circa 11 miliardi di persone. Alla luce di quanto osservato in questi mesi, si suppone che il pianeta sarà più soggetto a pandemie che potrebbero diffondersi tanto più rapidamente quanto più densa sarà la popolazione e quanto più alto il numero di anziani che sono più facilmente vittime di malattie. E’ il caso di prepararsi. Come? Se dall’antichità si sa che igiene urbana vuol dire disporre di flussi d’acqua per tenere puliti edifici e strade, oggi sappiamo che ci vuole anche aria di buona qualità. E questa non si ottiene continuando con la logica degli energivori condizionamenti per gli ambienti chiusi e del traffico dilagante all’aperto.
Alcune archistar, interrogate dai mass– media sul tema delle città post–coronavirus, hanno suggerito una rivalutazione dei borghi. Una via interessante, ma limitata: come ha osservato Paolo Portoghesi, progettista e storico dell’architettura, paradossalmente se tutti si riversassero in villaggi rurali (sempre che ne avessero la possibilità) «questi cesserebbero di essere tali. Il problema è, dunque, come far sì che nelle città si raggiunga la stessa qualità urbana dei borghi ». Questi sono intervallati da porzioni di campagna e quindi si difendono meglio in condizioni di emergenza: lo si è visto nel caso di Vo’ Euganeo, che è stato riconosciuto come il modello pilota su come affrontare la crisi. Quella cittadina veneta (circa 3 mila abitanti) è stata subito isolata non appena s’è saputo dei primi contagi, e questo ha consentito di ottenere due obiettivi: comprendere chiaramente come si diffonde il virus, e ridurne drasticamente gli effetti.
Ecco che se si considera il futuro del continuum metropolitano formatosi in Europa dal secondo dopoguerra, sembra auspicabile che questo passi, dall’attuale continuità indistinta estesasi a macchia d’olio attorno ai centri storici, a una nuova frammentazione in piccoli centri separati per quanto raccordati: dal modello delle centralità me- tropolitane attorniate da periferie, al modello a rete articolato in tante polarità. Il sociologo Mario Abis al riguardo ha le idee chiare: «Bisogna segmentare il continuum metropolitano. Aprire parchi e corridoi verdi che generino separazione là dove ora c’è l’affollarsi di edifici e strade». Insieme con l’uso delle tecnologie antinquinamento, la diffusione di zone verdi strategicamente disposte nelle aree urbane consentirebbe di ottenere gli auspicati borghi dall’aria salubre. Questo è possibile perché la metropoli attuale nasconde un’elevatissima percentuale di edifici che, pur essendo relativamente recenti – in prevalenza del XX secolo – sono già in disuso. Pare che a Roma questi arrivino al 40% del costruito. Se presi tutti assieme, sono spazi enormi e, riutilizzati opportunamente, consentirebbero effettivamente di segmentare e ridisegnare la città.
Si tratterebbe di far sì che quelli che ora sono quartieri divengano cittadine separate da cortine verdi. Per esempio riutilizzando a parco ex stazioni, ex caserme, ex stabilimenti industriali o commerciali, e collegandoli tra loro tramite corridoi a giardino. Come ha scritto Miguel Jaenicke, con altri esponenti del gruppo Vic di Madrid ( Vivaio di iniziative cittadine): «I grandi parchi urbani trasformano spazi confinanti in settori dove si moltiplicano gli spazi aperti e pubblici» (da El Pais, 20 aprile 2020). Il modello è quello dei parchi lineari, come per esempio quello che ora divide in due la ca- pitale spagnola che è attraversata dall’asse della Castellana, un seguito di ampi viali a giardino che in alcuni tratti costituiscono una vera e propria barriera alberata.
La proposta del gruppo Vic, coerente con quella suggerita da Abis, è di ridisegnare in tutte le grandi città non qualche viale, ma nuove trame di corridoi verdi ovunque diffusi, larghi da 100 a 400 metri, in modo tale da suddividere il tessuto urbano in tanti quartieri isolati tra loro da zone a giardino. Coi dovuti aggiornamenti, in fondo si tratta di compiere oggi qualcosa di simile a quanto già studiato da Georges–Eugène Haussmann alla metà del XIX secolo, per ristrutturare Parigi allo scopo di decongestionarla e renderla più salubre tramite l’apertura dei boulevard. Quest’opera consentirebbe anche di dar luogo, in quelle che ora sono periferie, a nuovi snodi dotati della qualità dei vecchi centri storici, disponendo piazze e luoghi adatti alla vita all’aperto dove ora vi sono solo flussi di traffico.
Compiere una vasta operazione di tal fatta comporta da un lato attenzione per le condizioni dei singoli luoghi e delicatezza negli interventi (quel che con felice espressione è stata chiamata “agopuntura urbana”); ma dall’altro lato richiede una visione ampia, una pianificazione di lungo termine, capace di mobilitare attenzione culturale e sostanze economiche. Bisogna risvegliare la propensione a pensare non solo l’immediato o il futuro prossimo, ma il futuro lontano. «Ritorniamo all’utopia urbana – suggerisce lo storico dell’architettura Corrado Gavinelli – che ha contraddistinto tutte le grandi concezioni della cultura urbanistica ». Sinora queste si sono rivelate troppo avanzate per essere realizzate, soprattutto perché non apparivano convenienti agli occhi di chi guarda solo alla gestione economico– finanziaria di breve respiro.
Ma ora se ne può comprendere l’importanza e la realizzabilità. Infatti nei mesi vissuti sotto la minaccia della pandemia la frenesia dell’attimo fuggente s’è sopita e forse ci siamo accorti che ci eravamo troppo abituati a vivere il tempo perlopiù come parossismo del presente: da decenni subiamo un’economia drogata da speculazioni realizzabili in pochi istanti, un universo massmediale focalizzato sullo scoop dell’ultimo minuto e un mondo politico ossessionato dalla prossima tornata elettorale. Ora è necessario tornare a guardare alle conseguenze lontane di quanto si compie oggi. La Commissione Europea a fine maggio ha annunciato un piano decennale per rinverdire l’Europa: la “EU Biodiversity Strategy for 2030”. Di questo ha fatto molta impressione la proposta di piantare tre miliardi di nuovi alberi: ma include progetti più ampi e variegati, fondati sull’idea che solo un recupero dell’equilibrio ambientale permetterà di generare nuova ricchezza sul vecchio continente. Con buona pace dei detrattori dell’Unione, è solo grazie alle visioni più ampie maturate tra Bruxelles e Strasburgo che l’Italia per la prima volta nel 2004, recependo la Convenzione europea sul paesaggio del 2000, ha cominciato a dotarsi delle condizioni istituzionali adatte a salvaguardare il proprio territorio, di cui va tanto fiera ma che tanto è tormentato.
Ora l’auspicio è che, ripensando al tempo sospeso nei mesi del confinamento da coronavirus, si consideri quanto è importante muoversi secondo obiettivi di lungo termine e non solo navigare a vista. Impostando una politica che consenta all’eperopoli europea di essere sempre meglio vivibile, e così offrendo anche al mondo un nuovo paradigma, adeguato umanizzare la crescente metropoli globale.