Il fuoco di Olimpia lascia il braciere solo per pochi giorni: da tempo la chiusura di un’Olimpiade non è una fine, ma una sospensione. Le Paralimpiadi che lo riaccendono domani sera riportano l’incontro del mondo sotto i riflettori di una città, Parigi, che sa essere vetrina come poche altre. Nemmeno venti giorni di intervallo, giusto il tempo di sostituire i pannelli con i cinque cerchi con quelli con i tre “agitos”, il simbolo delle Paralimpiadi che stilizza un movimento asimmetrico attorno a un centro. Torneremo a vedere colori e bandiere, entusiasmo e sconforto; torneremo a vedere lo sport, che mette a confronto e proprio attraverso il confronto unisce gli uomini in una sfida, sana e onesta, che si conclude nell’abbraccio dopo la linea del traguardo. Torneremo a vedere anche una geopolitica leggermente diversa da quella delle Olimpiadi, perché è la geopolitica dell’inclusione, della civiltà nel senso più alto del termine. E l’Italia, fa piacere osservarlo, non sfigura affatto sia per il numero degli atleti che porta a Parigi sia per le ambizioni di alto livello che li accompagnano, forti del risultato già eccezionale della precedente edizione di Tokyo 2020.
In più, il movimento paralimpico italiano porta in dote a questi Giochi un motto di un’ironia e di un’intelligenza rare, spiegato dal presidente del Comitato italiano Luca Pancalli su queste pagine poche settimane fa: per essere paralimpici ci vuole il giusto physique-du-rôle (“Avvenire”, 18 luglio). Ogni Paralimpiade è un passo avanti sociale e tecnologico: basti pensare alle ricadute positive sulla riabilitazione di tante protesi sperimentate in ambito sportivo. Eppure, se sulle Olimpiadi tutti sanno tutto (o fingono di saperlo: ogni quattro anni anche i più accaniti calciofili discettano di tattiche di regata o di mosse di judo), sulle Paralimpiadi rimane sempre qualche elemento di confusione. Che coincidano sostanzialmente con lo sport praticato da disabili, innanzitutto. Non è così: ne sono un sottoinsieme, anzi un sottoinsieme dello sport per disabili fisici. Non tutte le disabilità, poi, sono rappresentate alle Paralimpiadi: per quelle cognitive esistono apposite manifestazioni (le più celebri e partecipate sono le Special Olympics) né ci sono alcune disabilità fisiche, per esempio i sordi hanno competizioni distinte (soprattutto per ragioni numeriche).
Alle Paralimpiadi, così come si sono strutturate a partire dalla prima pioneristica edizione di Roma 1960, è presente un insieme determinato di categorie di disabilità fisiche e sensoriali: gareggiano atleti con amputazioni o invalidità agli arti e gli ipo/nonvedenti. Ma è il concetto stesso di disabilità a essere ridefinito: come spesso ripetono gli atleti stessi, la disabilità non è più un limite, bensì un termine di regolamento entro il quale gareggiare. Chi si accosta alla visione delle Paralimpiadi lo coglie già dopo pochi attimi: l’aspetto di inclusione della disabilità passa rapidamente in secondo piano di fronte a quello puramente sportivo.
Certo, ammiriamo la tenacia, la forza di volontà e la determinazione dei disabili che superano ostacoli apparentemente insormontabili; ma in pochi istanti passiamo a entusiasmarci per il puro sport, esattamente negli stessi termini in cui lo si fa in campo olimpico: con l’occhio incollato al cronometro, al centro del bersaglio, alla misura della distanza. È, questo, il più profondo messaggio di inclusione che arriva da una manifestazione che a ogni edizione fa comprendere la disabilità: senza pietismi, senza steccati, ricorda quanto poco basti per far sì che il mondo in cui tutti viviamo possa divenire il mondo per tutti nel quale vorremmo vivere. Per qualche settimana ogni quattro anni, Olimpiadi e Paralimpiadi aprono una finestra dalla quale è possibile sbirciare quel mondo. Sarebbe davvero un peccato richiuderla non appena la fiamma del braciere si spegnerà davvero.