C’è chi alza la tensione per incassare qualche dividendo politico. Recep Tayyep Erdogan, per esempio, che evoca il Nagorno Karabakh e la Libia per dire che si potrebbe fare altrettanto con Israele. Va sul pesante anche Benny Gantz. Uscito dal gabinetto di guerra di Israele in polemica con Netanyahu, ora invita a «fare a brandelli il Libano». Sono le inevitabili ricadute dell’ultima strage, quella dei dodici ragazzi che giocavano a pallone in un campetto sul Golan, colpiti (forse senza volere, ma conta poco) da un razzo di Hezbollah.
Per fortuna sono più numerose le voci che chiedono moderazione. Il Governo italiano, anche attraverso il comando della missione Unifil, da dove si ricorda che negli ultimi dieci mesi sono morte in Libano 500 persone. Il Governo britannico dell’appena insediato Keir Starmer, di certo non “antisemita”, che ha preso decisioni importanti (ritirato il ricorso britannico contro il mandato d’arresto per Netanyahu della Corte dell’Aja) e altre potrebbe prenderne (blocco alla vendita di armi a Israele). Il governo del Libano.
L’amministrazione Biden, preoccupata per una possibile guerra regionale. Nessuno può impedire a Israele di reagire. Tutti cercano di fare in modo che si tratti di una risposta controllata. Un po’ come successe con l’Iran nell’aprile scorso.
Dal 7 ottobre del 2023, quando Hamas lanciò i suoi assassini contro i militari e i civili israeliani, la guerra a vasto raggio è lo spettro che tutti cercano di disperdere. Il paradosso sta in questo: il conflitto su vasta scala, in realtà, non lo vuole nessuno.
Non l’Iran, che dovrebbe intervenire a sostegno di Hezbollah (che già arma e finanzia) ma non ha la capacità di opporsi a un vero attacco di Israele. Che per di più, se minacciato, avrebbe l’appoggio Usa. Non la Siria, disastrata, impegnata in una complicata trattativa con la Turchia e comunque tenuta al guinzaglio dalla Russia. Non gli Usa di Biden-Harris, che a questo punto della campagna elettorale tutto vogliono tranne che impantanarsi nell’ennesimo disastro mediorientale.
A ben vedere, infine, la “grande guerra” non la vuole nemmeno Israele. Le sue truppe sono impegnate a Sud, a Gaza, e insieme al Nord, al confine col Libano, e chissà per quanto tempo ancora lo saranno. È poco tranquillo anche il confine con l’Egitto. Se tutto questo sfociasse in un conflitto più ampio, l’impegno potrebbe superare le pur notevoli forze dello Stato ebraico. E poi c’è il fronte interno. I ministri di Israele, e lo stesso Netanyahu, quando hanno osato presentarsi nel villaggio druso di Majdal Shams, nel Golan, sono stati chiamati “assassini”. La psicologia dei territori occupati può essere particolare, ma lo stop alla guerra è richiesta che arriva anche da una parte consistente della società israeliana. In più, Amir Yaron, governatore della Banca centrale di Israele, calcola che negli anni 2023-2025 la guerra costerà 63 miliardi di euro tra spese per la difesa, bisogni civili e calo del gettito fiscale. Senza contare i morti, i feriti, i profughi, i danni umani e finanziari a lungo termine.
Ma se è così, perché tutti temono una guerra in grande stile? Per due ragioni. La prima è che molti Paesi sostengono il diritto di Israele a esistere e, quindi, a rispondere alle aggressioni. Questi stessi Paesi, però, non hanno alcuna leva per moderare le reazioni di Israele e, soprattutto, nessuna influenza sull’approccio al vero problema: la costituzione di uno Stato palestinese. Al contrario: più insistono, più Israele (questo Israele, almeno) radicalizza il rifiuto. Solo poche settimane, infatti, fa il Parlamento ha votato una risoluzione che definisce quell’ipotetico Stato “una minaccia esistenziale”.
La seconda ragione è che tutti, ma proprio tutti, hanno capito che Netanyahu usa questa guerra come strumento di conservazione del potere. Magari aspettando che Donald Trump, che con gli Accordi di Abramo del 2020 aveva organizzato per Israele una serie di grandi privilegi e per lo Stato palestinese la riduzione a riserva indiana, torni alla Casa Bianca. Lo hanno capito tutti ma nessuno sa come si possa difendere Israele senza nello stesso tempo “aiutare” Netanyahu o, al contrario, “attaccare” Netanyahu senza indebolire Israele. Mescoliamo il tutto e otteniamo una situazione che, complice la grande quantità di attori sul terreno, istituzionali e no, può degenerare in ogni istante. Dal 7 ottobre 2023 a oggi non è successo. Ma domani? Dopodomani?