Le comunità cristiane sono chiamate ad «abitare evangelicamente la crisi che pure le coinvolge e le attraversa, accettandola come un tempo di grazia donatoci per capire la volontà di Dio». Sono parole del cardinale Bassetti nella sua introduzione al Consiglio permanente Cei appena concluso. Vi si legge la consapevolezza delle difficoltà che la Chiesa sta vivendo, e al tempo stesso la speranza di veder fiorire in essa un germoglio di vita nuova.
«Per la Chiesa, i giorni crocifissi sono i giorni benedetti»: così si esprimeva un altro presidente della Cei, il cardinale Anastasio Ballestrero, già arcivescovo di Torino, in un’intervista rilasciata quasi alla fine della sua vita. Certamente viviamo giorni crocifissi; non solo la Chiesa, ma tutta l’umanità è inchiodata a una croce dolorosa, che l’ha gettata nello sgomento di un’esperienza di fragilità impensata e imprevedibile. La croce della Chiesa ha spine e chiodi in aggiunta, rispetto a quelli di tutti. Questa grande prova è come se avesse tolto il velo alla difficile condizione della fede ecclesiale.
La pandemia ha dilatato gli spazi vuoti alle celebrazioni domenicali e ha mostrato come, senza la Messa della domenica, molti cristiani siano disorientati, come se la loro fede fosse appesa a quel momento, e non sapessero come sopravvivere senza. Non si può non avvertire la sensazione che questa situazione stia accelerando un processo di indebolimento delle comunità cristiane iniziato ben prima della pandemia. I giorni crocifissi della Chiesa cominciano ben prima della primavera del 2020, nella estraneità di molti giovani, nell’allontanamento delle donne adulte, nella fatica di trovare catechisti disponibili per la catechesi dei più piccoli. Molte persone – preti e laici –, impegnate con commovente generosità a moltiplicare occasioni per tenere insieme comunità sempre più fragili, sono consapevoli che i loro sforzi servono a poco, perché siamo dentro un processo di cambiamento epocale che rende superati i modelli consolidati senza che se ne riescano a intravedere di nuovi.
Come ricorda papa Francesco, questa non è un’epoca di cambiamenti ma un cambiamento d’epoca: come meravigliarsi che le strutture del passato vadano in crisi? Come rimproverarci di non avere pronte delle alternative pastorali?
Occorre pensare a questa situazione con categorie diverse. Giorni crocifissi, della traversata di un deserto che non sappiamo quanto durerà, né dove ci farà arrivare. La Pasqua è morte che genera una vita nuova, che germoglia poco a poco, e che all’inizio ha le forme di un germoglio piccolo e debole. Ma il Venerdì santo ha una drammaticità in cui è difficile anche solo immaginare la conclusione
Tuttavia qualche germoglio si comincia a intravedere anche in questo momento di prova. Si vede nei giovani che in queste giornate di dolore si chiedono se non sia il momento di una nuova fraternità capace di abbracciare chi soffre di più. Si vede in quelle famiglie che stanno sperimentando la bellezza del pregare insieme semplicemente; in quelle persone che scoprono la ricchezza della Parola di Dio e la profondità interiore di una preghiera che, priva delle forme strutturate del pregare pubblico, apprezza il silenzio e le parole semplici di ogni giorno.
Avevamo pensato che i giorni benedetti fossero quelli delle chiese piene, degli oratori affollati di bambini e di giovani, della considerazione sociale; ci è difficile pensare che i giorni benedetti invece siano quelli in cui il successo viene meno. Eppure... Giorni benedetti sono quelli in cui si comincia a credere che nella croce c’è un mistero fecondo, una benedizione invisibile che è una promessa che si annuncia con segni discreti, percepiti solo da uno sguardo penetrante e da un cuore in attesa.
Nella fatica di questa traversata del deserto, si svegliano le tentazioni più subdole: quella di criticare scelte e di giudicare strategie, di prendere le distanze da una Chiesa di cui si vedono solo i difetti, di chiamarsi fuori, come se le responsabilità delle fatiche di questo momento fossero solo di qualcuno, e non toccassero anche ciascuno di noi... Ma questo non è forse il momento di immergerci nel mistero? Nel mistero di fragilità e di grazia di una Chiesa alla quale apparteniamo da figli. Nel ricordare che la Chiesa è nostra madre forse possono risvegliarsi quei sentimenti di comprensione, di condivisione, che ci fanno sentire che i suoi giorni crocifissi sono anche nostri; siamo insieme a portare la croce di questo momento, e al tempo stesso a scrutare i segnali di una nuova vita.
Giorni crocifissi, in cui sembra che la vita si stia spegnendo, ed è invece è la gestazione di una vita nuova. Questo è tempo di attesa, attesa operosa, pensosa, intelligente e coraggiosa, ma soprattutto umile. Mi sembra questo il segno di una fede che crede che nel futuro della Chiesa vi è una benedizione. Papa Francesco, parlando ai partecipanti all’incontro promosso dall’Ufficio catechistico nazionale della Conferenza episcopale italiana ha indicato la strada sinodale per rendere fecondi questi giorni crocifissi: ritorno convinto al Concilio, essere «artigiani di comunità aperte», missionarie, libere, disinteressate, capaci di guardare negli occhi i giovani delusi, di accogliere i forestieri e di dare speranza agli sfiduciati. Questi giorni conterranno anche per noi una benedizione se sapremo affrontarli così, e insieme.
Papa Francesco ha concluso l’incontro di ieri invitando come il solito a pregare per lui; forse questo è il tempo in cui occorre pregare di più e per davvero anche per la Chiesa.