Preghiera durante la Messa di Pasqua a Bucha, in Ucraina - Reuters
Non mi sembra ci sia da esultare in campo cristiano allorché si apprendono notizie di divisione, come quella della Chiesa ortodossa ucraina dalla russa e il più recente distacco degli ortodossi ucraini-russi dalla Chiesa cui erano uniti fino a non molto tempo fa. Ogni divisione lacera la tunica inconsutile del Cristo, che rappresenta la Chiesa e dunque va chiamata per quello che è: una ferita. Questi recenti eventi pongono la domanda: a quale cristianesimo giova il suo nazionalizzarsi? E questo proprio nella convinzione che la nota della 'cattolicità', la quale, insieme all’'unità', alla 'santità' e all’'apostolicità', va attribuita, sebbene in maniera differenziata, a tutte le Chiese, non solo a quella romana, non possa eludersi, se non altro nell’attuale contesto geo-politico o geo-teologico, almeno come tensione ovvero dinamismo cui quotidianamente allenarsi.
Allora non possiamo non chiederci: a quale cristianesimo possono giovare le divisioni in base alla nazionalità e dettate dalle guerre? Certamente a quello che, con la recente sociologia religiosa, assume la forma della cosiddetta 'religione civile'. Non si tratta di un sintagma che esprime soltanto una deriva, da Costantino in poi, in quanto può anche significare il radicamento della fede in un popolo-nazione, nella sua cultura, nella sua lingua, nelle sue manifestazioni di pietà, a meno che non si intenda declinarla nei termini, speriamo definitivamente sepolti, di 'Religione di Stato'. Comunque, siamo profondamente convinti del fatto che la divisione non possa mai giovare al cristianesimo inteso come «minoranza creativa», secondo la felice espressione di papa Benedetto XVI.
Non si può non denunziare il fatto che il dinamismo tendente alla 'cattolicità' delle Chiese, subisca una brusca frenata da parte dei nazionalismi, che ce le riconsegnano in versione 'autocefala'. Nessuna comunità credente è autocefala, ma eterocefala, in senso proprio e teologico, perché la sua 'cefalia', ovvero il suo primato appartiene a Dio. Come non mi stanco di ripetere, correndo il rischio di essere frainteso e tacciato di fondamentalismo, se la Chiesa, come ovvio, non è una demo-crazia, allo- ra non potrà che essere una teo-crazia. Il beato Antonio Rosmini Serbati la chiamava «società teocratica soprannaturale », nella sua monumentale Filosofia del diritto. È Dio, anzi lo Spirito che guida la Chiesa e le Chiese. Per questo, in prossimità della Pentecoste, possiamo contemplare il mistero della Chiesa nella luce della pneumato-crazia, ossia del primato dello Spirito, tutt’altro che autocefalo, ma correlato al Padre e al Figlio.
Il ragionamento e le vicende ci pongono di fronte alla frammentazione del cristianesimo, che è una cifra della sua agonia nell’attuale contesto culturale e socio- politico. Questi frantumi/frammenti, nei quali comunque non dobbiamo né possiamo rinunziare a scorgere il Tutto, secondo un attualissimo messaggio di Hans Urs von Balthasar, pongono la domanda: quale centro di gravità (più o meno permanente) dobbiamo riconoscere e indicare ai credenti oggi? La scelta 'nazionalista' di fatto pone tale punto di Archimede nella società e nella nazione, persino nel territorio, in cui il popolo di Dio vive, celebrando, annunziando e donando la propria vita ai fratelli. In tale forma dell’autocefalia sembra riprodursi la versione post-moderna del cuius regio, eius religio, che la modernità ci ha consegnato, magari assicurando un minimo di convivenza pacifica alle nazioni e ai loro popoli, ma certamente non alimentando il credo 'cattolico'. Se, infatti, la divisione viene incoraggiata dai comportamenti immorali di quanti detengono la leadership delle Chiese, la comunità cui appartengo con convinto orgoglio avrebbe dovuto ormai da tempo essere frantumata e allo sbaraglio in maniera irreversibile.
La pneumatocrazia si rivela, invece, nella capacità dello Spirito di suscitare figure di santità cristiana autentica nelle diverse appartenenze ecclesiali. Si tratta di testimoni come Edith Stein, Dietrich, Bonhoeffer e Pavel Alexander Florenskij, che hanno offerto la loro stessa vita non per una particolare confessione- professione-appartenenza credente, ma per la fede stessa, come diceva la santa carmelitana alla sorella mentre entrambe venivano condotte al martirio: «Andiamo per il nostro popolo!» (e si riferiva al popolo ebraico). Un’autentica professione di fede ebraico-cristiana fino all’effusione del sangue. Oggi una figura di santità che noi cattolici romani e gli ortodossi possono e devono condividere è quella del medico laico, di cui è in corso la causa di beatificazione, ma che i russi già venerano come santo, il servo di Dio Friedrich Joseph Haass (1780-1853), che stiamo imparando a conoscere grazie all’indefesso lavoro del collega gesuita Germano Marani.
Sarebbe a questo punto agevole, per un cattolico-romano, quale mi glorio di essere, mostrare come questa Chiesa si sia in qualche modo messa al riparo dal nazionalismo e dal populismo, grazie alla propria innata vocazione all’universalità. Certa apologetica di contrapposizione ormai ha fatto il suo tempo e certamente non mi appartiene, laddove invece mi preme segnalare la tensione alla cattolicità che dovrebbe animare tutte le confessioni. Non giocherò in casa, citando la Fratelli tutti e altri numerosi interventi del vescovo di Roma, papa Francesco, ispirati sempre dal Concilio Vaticano II, sul dialogo interconfessionale, ma offrirò un esempio concreto, nel quale ho potuto constatare in actu exercito la tensione alla cattolicità dell’Ecclesia: mi riferisco alla Concordia di Leuenberg in ambito protestante (datata 16 marzo 1973) che consente alle diverse Chiese nel grembo del protestantesimo di scambiarsi reciprocamente doni, come il ministero e l’eucaristia, pur conservando le loro peculiarità e differenze.
Nel nostro piccolo, questo scambio di doni mi sembra efficacemente rappresentato dal 'dono del pane', che si realizza nella Chiesa di Pinerolo fra valdesi e cattolici e che anche quest’anno si vivrà in occasione della Pentecoste (5 giugno). «L’idea venne sottoposta dal professore e teologo valdese Sergio Rostagno – ricorda il pastore Gianni Genre – ed è una tradizione che risale al terzo secolo dopo Cristo, quando Eusebio di Cesarea, consigliere dell’imperatore romano Costantino I, aveva suggerito uno scambio del pane e del vino per l’eucaristia tra cristiani d’Occidente e cristiani d’Oriente». In questo contesto è utile ricordare che la questione dell’ospitalità eucaristica tra le Chiese cattolica, ortodosse ed evangeliche è da annoverare tra i nodi ecumenici non ancora risolti. Ma il nodo non ci impedisce di pregare, tendere e camminare insieme verso l’auspicata, non formale e neppure meramente simbolica, comunione eucaristica.
In conclusione mi permetto di sottolineare il fatto che la dicitura 'Chiesa autocefala' può presentare delle incongruenze teologiche, se pensiamo la comunità cristiana nel suo radicamento trinitario e pneumatologico, ma ancor più se ci rivolgiamo al contesto del conflitto, che chiederebbe da parte dei credenti in Cristo lo sviluppo, sia pur tensionale, della vocazione cattolica delle Chiese, piuttosto che il loro identificarsi con espressioni nazional-popolari, etniche e identitarie in senso fondamentalista. Non dico di non denunziare il potere e il suo esercizio da parte di chi è responsabile della Chiesa di Mosca, in occasione della tragedia bellica che si sta vivendo, ma di soccorrerlo perché si sganci dalla propria identificazione nazionale e belligerante, in modo che il 'conflitto' intra-ecclesiale si svolga secondo le modalità proprie descritte nel proto-cristianesimo nella pericope di Atti 15, 1-33, ma forse la mia è solo un’utopia, che ho l’ardire di pensare possa almeno far riflettere, se non immediatamente agire, i responsabili delle Chiese.