Uno studioso di Letteratura Italiana, docente a Venezia, mi segnalava come una perla di saggezza psicologica una frase di Cesare Pavese che dice: «Il suicidio è un omicidio timido». Il suicida non ha il coraggio di fare un omicidio, perciò uccide se stesso. Non ci ho mai creduto. Ho sempre pensato il contrario. L’assassino uccide fuori di testa, da esaltato, in fretta, anche se sta sparando a moglie e figli, poi quando viene il suo turno e dovrebbe uccidersi rimanda, dialoga con la polizia al telefonino per ore, per mezze giornate, a volte si fa convincere, e a volte, quando raggiunge la decisione di spararsi, gli s’inceppa l’arma o il colpo gli va storto, il che dimostra che la decisione non era poi tanto solida. Ho sempre pensato che la frase di Pavese va rovesciata: l’omicidio è un suicidio timido. Uccide anche chi non ha il coraggio di uccidersi.
Tutti hanno, tutti abbiamo paura della morte e del dopo-morte. La notizia che viene da Firenze lo conferma in pieno: un fiorentino pieno di debiti (ma neanche poi tanto: 30mila euro, è questo il valore della vita?), esce di casa per farla finita, porta con sé la sua amata pistola di precisione, una Beretta Px4, con la quale si esercitava al poligono di tiro, ha lasciato un biglietto d’addio per la figlia. Imbocca un ponte, è lì che pensa di realizzare la sua impresa, uccidersi. Forse sparandosi o forse buttandosi giù. Il fatto di avere più scelte per compiere la sua impresa gli fa credere che gli sarà più facile compierla. Ma non è così. Il cervello di un imminente suicida è un fuoco in cui decisioni e convinzioni bruciano una dopo l’altra, tutto diventa cenere, lo sa bene Dostoevskj che nei Demòni descrive un suicida che esita all’infinito prima di spararsi, e in quell’esitazione accetta tutto quello che gli propongono, compresa la responsabilità in un omicidio che neanche conosce. Camminando il nostro fiorentino sessantenne ha un’idea: perché invece di uccidere me stesso non uccido qualcun altro? Nostra domanda: quali sono i vantaggi? Sua risposta: così vado in prigione, mi mantengono, e non gravo sulle spese di nessuno. Si convince della bontà della nuova decisione. Uscito di casa come suicida, fatti pochi passi cammina come prossimo omicida. Ha deciso: ucciderà il primo che gli càpita. Così potrà dire a se stesso che quello è stato 'sfortunato', la colpa della sua morte è del destino. Dunque sta per accadere il perfetto delitto gratuito e casuale, un uomo uccide una persona perché gli càpita davanti, lui non la sceglie.
Ma non va così. A capitargli davanti per prima è una donna africana, una madre con un figlioletto in braccio. Gli viene incontro. Facile spararle in testa da un metro. Ma c’è quel bambino. L’uomo-che-ha-deciso-di uccidere non ce la fa, la lascia passare. Se hai deciso di ucciderti ce l’hai con la tua vita, se hai deciso di uccidere chiunque ce l’hai con la vita in generale, ma se non vuoi uccidere una madre con figlioletto c’è una porzione di vita con la quale non ce l’hai, ed è la maternità. La maternità ti frena. L’uomo-che-vuole-uccidere carezza la pistola in tasca e prosegue la camminata. Ed ecco, il destino si compie: viene avanti un altro africano, un uomo sui 50-60, il fiorentino estrae la pistola e gli spara, quello barcolla e scappa, altri colpi, quello cade, colpo di grazia. L’uomo che non aveva il coraggio di uccidersi ha avuto a dismisura il coraggio di uccidere. Ha ucciso mirando di fronte, inseguendo alle spalle, giustiziando alla testa. L’uomo incapace di suicidio è stato capace di un omicidio che ne vale tanti. Ergo, Pavese ha torto. La comunità senegalese protesta: «Perché ha ucciso un senegalese? Quanti italiani ha incontrato per la strada?». Non lo sappiamo, ma sappiamo che, se avesse voluto uccidere senegalesi, poco prima ne aveva due, madre con figlio, a portata, e li ha risparmiati. Voleva uccidere perché odia la vita. E non quella degli altri. Uccide altri perché lui è già morto dentro.