Non vogliamo dimenticare. 75 anni dopo: gratitudine, unità, speranza
venerdì 24 aprile 2020

Sì, lo so: non pochi tra quanti hanno davanti la nostra prima pagina con il suo titolo gigante – «25 aprile: resistere, resistere, resistere» – penseranno a Borrelli. Non ad Angelo, il capo della Protezione Civile e quotidiano protagonista della lotta contro la pandemia da coronavirus, ma a Francesco Saverio, il magistrato che guidò la Procura di Milano negli anni della lotta a Tangentopoli e della faticosa nascita della cosiddetta Seconda Repubblica. Ma il pensiero non è al passato, è all’oggi e al domani. Perché – come scrive il presidente Mattarella nel Messaggio per la 75ª Festa della Liberazione che anche noi abbiamo l’onore di contribuire a diffondere – «fare memoria della Resistenza (…) significa ribadire valori di libertà, giustizia e coesione sociale», idee-guida che consentirono di sconfiggere il nazifascismo, di costruire l’Italia democratica e di aprire il cantiere di una nuova Europa.

Settantacinque anni. Tre quarti di secolo di libertà e di sviluppo in un panorama internazionale infelicemente ineguale. Quindici lustri di pace e di crescente benessere per la nostra gente in un mondo che resta senza pace e senza equità. Non certo una società perfetta la nostra, anche prima che il Covid-19 ne proclamasse la fragilità, ma un buon posto per nascere e vivere; uno di quelli che altri, nati altrove, continuano solo a sognare. Eppure, a poco a poco, tanti hanno smarrito slancio e fiducia, mancato occasioni e visto umiliati i sogni. Sino a scoprirsi cittadini di una terra dove non si mettono al mondo i figli che si vorrebbero (e che ci servirebbero), dove la tenacia e la competenza dei giovani (e dei meno giovani) non vengono accolte e valorizzate, dove gli anziani vanno in pensione un po’ prima, ma hanno meno difesa sanitaria del necessario. Certo, succedono ancora e sempre tante cose buone e belle in Italia, ma non abbastanza, ma non a tutti.


Per di più, strada facendo, abbiamo anche perso le "case" politiche aperte da quelli che avevano lottato per noi e che per noi, e poi con noi, avevano fatto salde le fondamenta della Repubblica. E non è capitato per un destino cinico e baro, ma per la triste dilapidazione di un patrimonio ideale e morale. È successo per l’agrodolce consunzione, tra ferita amarezza e spensierato nuovismo, di una grande stagione politica. È accaduto per avventurosi cantieri di riforma aperti senza lungimiranza e ascolto vero della gente vera. Ci siamo ritrovati, così, con non pochi e non irrilevanti nuovi leader dalla memoria intermittente e persino rovesciata. Custodi, in realtà, di memorie che negano se stesse, perché in esse torti e ragioni si confondono. Fino, magari, a non saper più riconoscere e dire che nell’orrore dell’immensa carneficina novecentesca – in cui tutti hanno ucciso e, prima ancora, straziato l’umanità – ci sono pur stati carnefici e vittime, oppressori e oppressi, sterminatori e sterminati, liberatori e liberati.


Ma ci sono ancora e sempre anche i buoni "resistenti". Quelli che oggi come ieri non dimenticano e non la fanno facile, e sanno dire grazie a chi si è battuto ieri e a chi si batte oggi. Quelli che vogliono pensare un’Italia, un’Europa e un mondo più onesti, solidali e giusti, e sanno che sono possibili e che dobbiamo farli così. Hanno opinioni anche piuttosto diverse, questi uomini e queste donne, e non dicono tutti la stessa cosa, ma conoscono il bene che è la libertà degli altri. Vengono da strade differenti, ma non hanno paura di camminare insieme e di tenere, sull’essenziale, la medesima direzione. Anche ai tempi del coronavirus, quando le vie sono deserte e le piazze solo virtuali, quando ci è chiesto – aspettando la Fase 2 dell’emergenza e preparandoci a non farci sorprendere dall’annunciata seconda onda della pandemia – di mantenere strenuamente il «distanziamento sociale».

Resistere, resistere, resistere, dunque, non è un grido ferito e irato. È dar voce alla nostra gratitudine. È chiederci unità. È ricominciare la speranza.



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