Sulle Dat è necessaria una buona legge. E serve adesso Il dibattito in merito alla legge sul consenso informato, sulle dichiarazioni anticipate di trattamento e, più in generale, sul «fine vita» continua a restare acceso e a confondere le idee degli italiani, scosse da una parte da terribili eventi mediatici, come la morte procurata di Dj Fabo, e dall’altra da forme di disinformazione particolarmente biasimevoli. Senza entrare nel merito dei possibili auspicabili emendamenti da portare al disegno di legge arrivato alla discussione in aula, alla Camera dei deputati, vorrei limitarmi a indicare alcuni punti, sui quali dovremmo far convergere la nostra riflessione. Il disegno di legge non è in alcun modo finalizzato a introdurre in Italia una normativa che legalizzi l’eutanasia. Questo è ciò che invece sostengono alcuni tra i suoi avversari, ma per farlo devono interpretarlo in modo forzato. Onestà vuole che una legge vada valutata per ciò che dice e non per ciò che potrebbe farle dire un interprete subdolo o malevolo.
Non c’è dubbio che la possibilità di una simile interpretazione, una volta approvata la legge, esista e che esistono alcuni rumorosi parlamentari che sostengono che nella prossima legislatura si dovrà passare ad approvare un’altra legge che esplicitamente riconosca l’eutanasia. Ma se ci lasciamo condizionare da questi timori, finiamo per pietrificare il nostro ordinamento e sostenere (contro ogni ragionevolezza) che è meglio non toccarlo affatto, lasciare le cose come stanno, quasi che il nostro diritto vigente sia perfetto e non abbia assolutamente bisogno di essere 'rivisto' (ovviamente secondo giustizia!). Non è così. Un intervento legislativo in tema di fine vita, intelligente e consapevole dello spessore dei problemi, è opportuno, anzi necessario, se non vogliamo chiudere gli occhi, pigramente e colpevolmente, davanti a una realtà che sta mutando a velocità vorticosa. Indico solo due punti per giustificare quanto appena detto: due punti che stanno da anni al centro del dibattito bioetico e biogiuridico internazionale.
Il primo concerne l’incredibile complessità raggiunta dalla medicina di oggi: una complessità che nessun medico, neanche il più illuminato, è in grado di dominare, senza rendere il paziente coprotagonista delle decisioni terapeutiche che lo riguardano. È questo il significato corretto dell’espressione «alleanza terapeutica», non quello dolciastro che vediamo spesso utilizzato e che non centra il cuore della questione, che è epistemologico, prima ancora che psicologico. Si è alleati, quando le decisioni si prendono insieme. Naturalmente il paziente può benissimo continuare a utilizzare il vecchio paradigma paternalistico e chiedere al medico di 'decidere tutto lui', approvando a priori e alla cieca qualunque decisione che egli prenda a suo carico. Ma questo paradigma si sta sgretolando, anche perché sono sempre più numerosi i medici che rifiutano di utilizzarlo, non perché lo ritengano 'pericoloso' dal punto di vista medicolegale e deontologico, ma perché lo ritengono storicamente superato e quindi anche eticamente discutibile. Di qui il rilievo che bisogna dare al consenso informato, alle dichiarazioni anticipate di trattamento (le Dat), alle indicazioni di un 'fiduciario', quando il paziente non sia in grado di intendere e di volere. Secondo punto. Cosa può garantirci che le indicazioni provengano da un paziente davvero consapevole, informato, non sconvolto dall’emotività o dalla depressione o da un fiduciario 'onesto'? Questa domanda è importante, ma rientra nel novero di quelle cui non è possibile dare una risposta che fughi ogni perplessità. È una domanda analogabile a quella che per secoli è stata utilizzata per incrinare il paradigma politico democratico (come possiamo essere sicuri che l’elettore dia un voto consapevole, informato, privo di condizionamenti?) o per vincolare la scelta matrimoniale dei figli al consenso dei genitori (solo i genitori saprebbero davvero scegliere il coniuge migliore per i propri figli!).
In materia sanitaria i rischi ci sono sempre e una buona legge non deve ignorarli, ma gestirli con intelligenza, stabilendo ad esempio rigidi requisiti per la validità formale delle Dat. Estremamente opportuna, in tal senso, mi sembra l’indicazione, entrata nel disegno di legge, secondo la quale il paziente non può esigere trattamenti sanitari che vadano contro la legge, le buone pratiche cliniche o la deontologia professionale degli operatori sanitari. Una simile norma dovrebbe tranquillizzare molti critici della nuova normativa. Tutto a posto, allora? Certamente no. Bisogna continuare a lavorare sul disegno di legge che è arrivato alla Camera con estremo rigore, per migliorarlo ulteriormente. Ma presentarlo all’opinione pubblica come finalizzato a far entrare nel nostro ordinamento un’eutanasia mascherata, non rende onore alla verità delle cose, serve solo ad esasperare una conflittualità biogiuridica che in passato ha portato a far approvare leggi mediocri e a favorire a loro carico interventi correttivi (ahimè, anche essi spesso mediocri) della Corte costituzionale. La storia ci impone di avere coraggio, di abbandonare in parte (solo in piccola parte!) il vecchio paradigma della medicina ippocratica e di contribuire alla costruzione di un paradigma nuovo e molto più complesso. E chi perde gli appuntamenti con la storia sarà costretto, prima o poi, a pentirsene amaramente.
*Presidente dell’Unione giuristi cattolici e presidente emerito del Comitato nazionale per la bioetica