Non sono mai stato un amante delle Prove Invalsi, di questa idea che il funzionamento della scuola possa essere verificato attraverso le risposte esatte. Paradossalmente i dati, resi noti in questi giorni, hanno finito per confermare che la Dad non è nemmeno riuscita a salvare la scuola tradizionale presidiata proprio dalle crocette sulle risposte giuste. Emerge un gran disagio nei nostri ragazzi che a scuola si sentono come degli ospiti o persone di passaggio, lì parcheggiate senza capirne bene il motivo. Da tempo denuncio che la scuola italiana ha un arretramento pedagogico significativo rispetto agli altri Paesi europei, abbarbicata com’è nel mito della lezione frontale e di un giudizio ancora veicolato da numeri utilizzati con la precisione di Guglielmo Tell.
In particolare, una Scuola Superiore dove molti insegnanti non arrivano formati come professionisti dell’organizzazione dell’apprendimento, ma come ex alunni in cattedra pronti a rifare quello che loro hanno vissuto, se non subìto, dai loro professori. Il ruolo stesso del Dirigente è ormai schiacciato dalle incombenze amministrative. Il permanere di un focus assolutistico sulle materie crea una demotivazione fortissima, un calo di interesse negli alunni e tanta dispersione scolastica.
La Dad si è quindi inserita in un quadro già compromesso. Meravigliarsene sarebbe fuori luogo. Resta invece lo stupore di come il Ministero non riesca a dare una svolta nel formare insegnanti in ottica pedagogica, a porre le basi per una scuola dove si apprende, non semplicemente dove si ripetono nozioni e contenuti. Un presidio pedagogico in ogni scuola e una formazione adeguata sarebbero il minimo necessario. Il disagio dei nostri ragazzi ha pure una ragione più profonda localizzata nella gestione degli adolescenti italiani da parte dei genitori.
Nel mio lavoro di sostegno educativo alle famiglie, ogni volta che mi trovo a dover fare i conti con un preadolescente o un adolescente in difficoltà l’elemento ricorrente è sempre la mancanza, nell’arena educativa, della figura del padre o della configurazione pedagogica paterna. I ragazzi e le ragazze, da che mondo è mondo, entrano in questa età con un unico, inesorabile desiderio: allontanarsi dal nido familiare, in particolare quello materno, e dal controllo dei genitori.
È un’esigenza negata da una gestione che resta, nella stragrande maggioranza delle volte, a trazione materna, ossia 'amministrata' direttamente dalla mamma in una continuità infantileadolescenziale che non lascia respiro e che non può funzionare. Questi giovani rischiano cortocircuiti molto pericolosi. Per fare un esempio riferito alla scuola: se la mamma vuole aiutarli, controllarli, incalzarli, andare male a scuola diventa l’unico mezzo per dimostrare che non ne vogliono sapere di questa modalità, che chiedono più libertà. Finisce così che non resta a loro che utilizzare il territorio scolastico per questa classica sfida adolescenti-genitori riducendo la scuola a un luogo dove, invece di trovare una via d’uscita dal controllo genitoriale, si trova un ulteriore elemento di scontro e di conflitto. La Dad ha enfatizzato al massimo la paradossalità del ritorno al nido materno creando un corto circuito davvero insostenibile.
Da sempre propongo, in adolescenza, la convergenza educativa sul padre e sul paterno. Di fronte a genitori più o meno disperati ribadisco che la mamma, ovvero la figura che ha gestito tutta l’infanzia, può essere avvertita dai figli quasi come una zavorra. Il rischio è che vogliano alzare l’asticella della provocazione in maniera esagerata pur di scrollarsi di dosso questo peso. Non ci sono colpevoli: l’allontanamento va gestito, non contrastato. È il momento in cui la mamma, quando è possibile, passa la palla al padre nella gestione del 'front office' educativo: 'Parlane col papà', 'Stasera sentiamo cosa dice il papà'. Il padre diventa quindi una figura di negoziazione e di regolazione di questo allontanamento, che può essere guidato attraverso tecniche specifiche – come ad esempio quella del paletto per cui si mette un limite dentro cui comunque l’adolescente ha una libertà di scelta.
È l’unico modo per gestire un’età della vita che diversamente rischia, come sta succedendo, l’implosione e l’autolesionismo. Un’età che corre il pericolo di non riuscire a essere sé stessa nel legittimo desiderio di distacco e di trovarsi impigliata in un maternage infinito, che non può risultare la risposta ai bisogni dei nostri ragazzi.
Pedagogista