Liliana Segre, la Shoah, il Muro
sabato 9 novembre 2019

Ero solo un bambino quando mia madre mi disse che non avrebbe voluto vedere il film "Parigi brucia?" di René Clément perché c’erano delle scene che le facevano ricordare la sua deportazione verso la Germania, a cui riuscì a fuggire scappando durante la sosta del treno alla stazione ferroviaria di Udine il 2 agosto 1944. Non potevo capire. Ho impiegato del tempo. Ma oggi a bruciare sono le parole: quelle che ogni generazione sarebbe chiamata a riconquistare per trovare almeno la dignità di stare al mondo.

La vicenda di Liliana Segre, costretta addirittura ad avere la scorta, segna una deriva culturale profonda: se nelle aule del Parlamento italiano una storia come la sua subisce la strumentalizzazione a cui abbiamo assistito nei giorni scorsi significa che qualcosa, fuori e dentro di noi, si è spezzato.

Le dichiarazioni del sindaco di Predappio, pronto a negare i fondi necessari a uno dei due studenti in partenza per Auschwitz, sostenendo che si tratta di un’«iniziativa di parte», sono sale sulla ferita, così come gli insulti reiterati che negli stadi alcuni sedicenti tifosi continuano a rivolgere contro i giocatori africani. Si ha la sensazione che siano saltati i punti di riferimento comuni fissati dai padri costituenti come invalicabili: quei fondamenti della democrazia senza i quali non potremmo nemmeno sederci uno di fronte all’altro .

Chi nega l’unicità dello sterminio amministrativo e industriale rappresentato dalla Shoah, nel migliore dei casi non sa nemmeno di cosa parla, non ha letto niente, non conosce il passato; nel peggiore è in malafede, impegnato a lucrare consenso sull’ignoranza altrui. Come se lo studio della storia fosse una specie di repertorio dei buoni e dei cattivi, una lista a due colonne: quelli da premiare e quelli da rigettare. Da una parte mettiamo chi sta con noi, dall’altra coloro che ci ostacolano.

Come faremo a salvarci dalla stoltezza, dall’ottusità, dalla semplificazione? Dobbiamo ripristinare i nessi fra il pensiero e l’esperienza: soltanto così le parole che pronunciamo avranno senso. Riprendiamo i manuali e insegniamoli ai nostri figli: non solo a loro, purtroppo; anche a chi ci dovrebbe rappresentare. Consegniamo il testimone. Non stanchiamoci di dover ricominciare da capo. Teniamo presente che la tradizione alle nostre spalle non sta mai ferma, alla maniera di un blocco granitico, ma continua a cambiare non appena la interpelliamo.

Trent’anni fa cadeva il muro di Berlino: era la fine del totalitarismo sovietico, la conclusione del "secolo breve". Ma come si fa a capirlo se non si parte dalla fine della Seconda guerra mondiale? E poi ancora prima, se non ci si immerge nel groviglio spinoso del Novecento? Nazismo, comunismo, lager, gulag, dittatura, monarchia, repubblica, libertà, sottomissione: non siamo di fronte a maschere da indossare. Dobbiamo fare sul serio. Riportare tutto alla nostra vita. Evitare ogni atteggiamento precostituito. Scegliere con cura le espressioni giuste. Non parlare a vanvera.

Proprio ieri, presentando in anteprima agli studenti del Liceo Torricelli di Maniago la mostra fotografica da me curata che si inaugura oggi a Pordenone, "Il muro infinito", ho guardato nei loro occhi, fra timore e tremore, come sempre dovrebbe fare l’insegnante. Per noi adulti il 1989 è un ricordo personale. Per loro si tratta di un mondo lontano. Non dovremmo mai dimenticarlo. Quando ho detto che la capitale tedesca è stata un’isola libera e capitalista nel grande mare comunista, mi è parso di dare acqua alla spugna secca: mezz’ora dopo, di fronte alle immagini esposte, in molti sono venuti a chiedermi ulteriori spiegazioni.

Nel momento in cui ho affermato che la Berlino multietnica di oggi rappresenta la vera sconfitta di Adolf Hitler, più ancora di quella che gli inflissero le truppe liberatrici, in diversi hanno mostrato interesse. Ma forse la sensazione più importante me la sono tenuta per me. Avrei voluto aggiungere: avanti ragazzi, non lasciateci soli, abbiamo bisogno di voi per ricostruire il paesaggio distrutto.

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