Lo sappiamo: i nostri figli hanno vissuto un dramma nel dramma in questi lunghi mesi di pandemia: le chiusure con ben poca scuola insieme a una pressione psicologica senza precedenti. Su queste pagine se ne è scritto molto, e in profondità, da parte di neuroscienziati, educatori, madri e padri, sacerdoti. Nei giorni scorsi, sulle pagine di un altro quotidiano, anche don Antonio Mazzi è tornato a riflettere sugli adolescenti e sulle conseguenze dirette e indirette del Covid-19 su di loro.
Molti studi continuano, intanto, a denunciare il loro crescente disagio, registrando anche i fenomeni più estremi come l’aumento dei tentativi di suicidio e degli atti di autolesionismo. Ben più diffuso è risultato lo smarrimento per l’isolamento forzato e la maggiore difficoltà di frequentare i coetanei. Molti genitori e insegnanti hanno visto figli e studenti chiudersi in se stessi, ritrovarsi più 'spenti' o 'arrugginiti', più fragili emotivamente e caratterialmente, più in difficoltà di fronte agli ostacoli di ogni giorno, in famiglia, a scuola, con gli amici. Senza contare le segnalazioni di minori che non frequentano più la scuola, hanno gettato la spugna e stanno scivolando via nelle maglie larghe della didattica a distanza.
Stanchezza, incertezza, apatia hanno colpito un’intera generazione. Che fare? Come ripartire 'con' e 'da' questi ragazzi? La strada non può essere quella di insistere sul tema della 'generazione Covid', come ha fatto notare giustamente don Mazzi: «Da noi arrivano ragazzi affetti da disturbi internalizzanti o esternalizzanti. Convinco i genitori che dobbiamo affrontare la sofferenza di un ragazzo che [solo] in minima parte è malattia. Non esistono gli autistici, i bipolari, gli schizofrenici, gli anoressici, gli psicotici, i violenti aggressivi, ma esistono degli adolescenti e dei giovani con problemi. Mi rifiuto (salvo casi gravissimi) di catalogare i ragazzi che chiedono aiuto, come ci siamo sempre rifiutati di etichettare chiunque».
Non si può creare una nuova categoria in cui incasellare un adolescente in difficoltà, preludio a una medicalizzazione (e dunque a una deresponsabilizzazione) del problema. La soluzione sta nel farsi carico di una domanda di futuro e rispondere con più vicinanza, partecipazione, responsabilità: i nostri figli ci chiedono più vita e più senso della vita.
È utile (e a chi?) attribuire ai ragazzi etichette che definiscano precocemente le diversità così come avviene nel sistema scolastico e nella nostra società? Si tratta in realtà di scorciatoie che illudono di superare i problemi anche perché certe etichette o definizioni rischiano di accompagnarli per tutto il percorso scolastico con conseguenze anche oltre la maturità. Umberto Galimberti sostiene che ci troviamo immersi in una cultura che persuade ciascun individuo di essere fragile e debole e che rende indispensabile il continuo ricorso a pratiche terapeutiche o all’assistenza di un tutor. Con il disagio adolescenziale legato al Covid-19 si rischia di andare nella medesima direzione, ma la nostra società non può fare a meno del contributo attivo di questi ragazzi e giovani che rischiano di essere 'scartati'.
«I giovani maturano se attratti da chi ha il coraggio di inseguire sogni grandi, di sacrificarsi per gli altri, di fare del bene al mondo in cui viviamo», ha detto papa Francesco agli Stati Generali della Natalità. È ciò che dobbiamo offrire ai nostri figli per farli uscire dal grigiore triste di un mondo segnato dalle limitazioni e dall’autolimitazione. Una stagione nuova in cui prenderci cura, come comunità, dei più giovani con responsabilità e fiducia.
Il punto è credere che i cuori di bambini, adolescenti e giovani guariranno se le mete che si porranno davanti a loro saranno all’altezza delle sofferenze che tutto il pianeta ha attraversato. In altre parole se non li etichetteremo come malati, ma li considereremo parte della cura di cui il mondo ha bisogno. Se non li medicalizzeremo, ma li vorremo come medici di un tempo nuovo, fatto di cura dell’ambiente, di rispetto per i più fragili, di gente che si sente sulla stessa barca.
Mario Draghi, parlando a sua volta all’incontro romano sulla natalità, ha annotato: «Perso l’ottimismo, spesso sconsiderato, dei primi dieci anni di questo secolo, è iniziato un periodo di riesame di ciò che siamo divenuti. E ci troviamo peggiori di ciò che pensavamo, ma più sinceri nel vedere le nostre fragilità, e più pronti ad ascoltare voci che prima erano marginali».
Quello che si apre è il tempo di una nuova sincerità. Con noi stessi, adulti che ritrovano una strada di verità e responsabilità. E con i giovani, non più marginali, ma centrali nella costruzione di un futuro diverso e migliore. Non certo marchiati come i nuovi malati, bensì protagonisti a pieno titolo di una società fondata sulla partecipazione e appassionata del domani.