La pandemia di Covid-19 ha insegnato molte cose su come un rapporto sbagliato con l’ambiente può produrre danni alla salute e alla vita delle persone. Ci sta facendo capire, inoltre, che lo sfruttamento delle risorse della Terra, se non rispetta l’equilibrio del Creato, produce più costi che benefici. O meglio: i vantaggi di qualcuno sono ottenuti facendo pagare il conto salato ad altri. Non è una dinamica nuova, ma l’interesse di pochi perseguito scaricando i costi sui molti, e più deboli, pare aver conosciuto un’accelerazione. Il virus sembra però aver insegnato anche che l’umanità ha le risorse per imparare a convivere con una situazione eccezionale, come quella della pandemia o dell’emergenza climatica: possiede cioè le energie spirituali e culturali per sostenere il peso materiale dell’emergenza, e per provare a superarla insieme come in una grande famiglia umana.
Nel giorno in cui ricorre la Giornata mondiale di preghiera per la cura del Creato, dovremmo dunque guardare alle cronache delle ultime settimane, dense nel nostro Paese di eventi climatici estremi, per ricordare che fenomeni di questo tipo sono ancora più devastanti quando i contesti territoriali risultano meno attrezzati a farvi fronte – nelle zone meno sviluppate del mondo – e che un buon modo per affrontare le difficoltà è agire lasciandosi ispirare da quanto di buono è emerso ad esempio nella gestione della pandemia. È come se il Creato continuasse a inviarci segnali. Ed è come se ormai conoscessimo bene le risposte: si tratta solo di decidere quando far partire il cambiamento. In un mondo che vediamo “malato” le persone sanno che il benessere dell’umanità è sempre più connesso con il benessere della Terra.
E l’appello urgente della Laudato si’, che ha ricordato, ai credenti e non solo, l’importanza di riconoscere questa interdipendenza – tra il Creato e gli esseri umani, ma soprattutto tra gli stessi esseri umani –, non è caduto nel vuoto. In questo senso possiamo vedere molti elementi di ottimismo. Il concetto di «ecologia umana e integrale» espresso nell’enciclica di cui ricorrono i 5 anni è patrimonio comune più di quanto si creda, nel momento in cui le giovani generazioni hanno fatto esperienza del valore della solidarietà, della cura dei più deboli, della rinuncia personale per un bene comune e più alto, del servizio, dei costi elevati dell’irresponsabilità e di quell’individualismo che nel non saper riconoscere il valore dell’Altro si accanisce contro la vita in ogni sua forma e contro l’ambiente. L’impressione è che tutto vada male, ma non è così. Convivere con l’emergenza, climatica o sanitaria – perché di questo si tratta ora –, richiede anche di saper riconoscere e valorizzare, e che siano mostrate, le energie positive e le buone pratiche. C’è un mondo che ha compreso a fondo come le dimensioni politica, economica, spirituale, culturale, siano interconnesse, e come il rinnovamento debba procedere da un cambio degli stili di vita.
Ma perché questo sia possibile occorre capire che questa responsabilità non va scaricata integralmente sulle singole persone, assolvendo Stati, istituzioni e sistema economico. Ci sono mutamenti che hanno bisogno della testimonianza e dell’accettazione del loro valore da parte di tutti, ma poi devono necessariamente procedere dall’alto, da riforme condivise e forti nel modo di produrre oltre che di consumare. L’impegno per il rinnovamento degli stili di vita non può diventare funzionale a una grande operazione di marketing orientata a trasformare tutto solo in etichette “ green”, come si è visto anche per i tentativi di lucrare politicamente o economicamente sull’emergenza Covid. Ciascuno di noi può e deve fare la sua parte, ma in questo compito e in questa tensione solidale planetaria il gesto personale ha bisogno di essere il frutto di una vera conversione ecologica, capace di cambiare i cuori e le menti.