Non è certo l'ospedale che fa meno duro l'aborto
mercoledì 12 agosto 2020

Gentile direttore,
qualche anno fa, nel 2017, fu pubblicata un’indagine realizzata da Doxa per conto dell’Osservatorio sulla violenza ostetrica in Italia, in collaborazione con le associazioni 'La Goccia Magica' e 'CiaoLapo'. In quell’indagine emergeva che circa un milione di madri in Italia - il 21% del totale -afferma di essere stata vittima di una qualche forma (fisica o psicologica) di violenza ostetrica alla loro prima esperienza di maternità. Un’esperienza così traumatica che avrebbe spinto il 6% delle donne, negli ultimi 14 anni, a scegliere di non affrontare una seconda gravidanza, provocando di fatto la mancata nascita di circa 20mila bambini ogni anno nel nostro Paese (fonte OVOItalia).

Mi sembra importante partire da questo dato, non abbastanza noto, per parlare della recente modifica annunciata delle linee guida sulla pillola abortiva Ru486 approntate dal Ministero della Salute. In pratica ora, a seguito – a quanto dichiarato – di un parere espresso dal Consiglio superiore della Sanità e certamente di un orientamento espresso dalla Società italiana di ginecologia e ostetricia (Sigo), sarà possibile assumere senza ricovero, fino alla nona settimana di gravidanza, prorogando il termine delle sette settimane previsto finora. In alcuni contesti si è subito parlato di aborto fai-date, di donne lasciate sole nel momento più drammatico della loro vita, eppure nessuno si preoccupa del fatto che le donne sono molto più spesso sole, spaventate ed esposte a rischi nelle corsie di un ospedale che a casa propria.

Questo elemento scivola dai discorsi, pur essendo presente nell’esperienza comune (è sufficiente aprire il discorso 'parto' in un consesso con 3-4 donne), per favorire l’immagine idilliaca della corsia d’ospedale come luogo dell’ascolto paziente, dell’accoglienza, del supporto. Non è così, non lo è per infinite ragioni che esulano dalla buona volontà di singoli operatori sanitari. E tanti bambini, magari desiderati, davvero non nascono per questo motivo, che pure non sembra entrare nell’agenda dei movimenti pro-life. Un secondo elemento: chi teme che questa nuova modalità di somministrazione renda più semplice abortire 'a cuor leggero', che deresponsabilizzi insomma le donne rispetto a un gesto tanto estremo, dovrebbe considerare il fatto che l’istituzionalizzazione non ha mai favorito l’autonomia e la riflessività, anzi - al contrario - il funzionamento del sistema (ad esempio ospedaliero) si fonda proprio sulla deresponsabilizzazione dei pazienti, che vengono gestiti, manipolati, spostati. E non c’è bisogno di scomodare 'Asylums' di Erving Goffman per comprenderlo.

Terzo elemento: gli aborti sono in calo dal 1983, un calo continuativo, che non lascia intravvedere ragioni per temere cambiamenti, dunque chi dice che la somministrazione in day-hospital anziché con ricovero della pillola Ru486 farà crescere il numero delle interruzioni volontarie di gravidanza, dovrebbe portare almeno un qualche argomento a sostegno di questa ipotesi. Il punto è che, ancora una volta, si tratta di ammettere che il fallimento di una società incapace di favorire la vita non solo viene pagato dalle donne, ma si pretende che lo paghino soffrendo fisicamente o, almeno, vivendolo in un regime di tutela.

Come donna che ha vissuto in prima persona la violenza ostetrica, come donna che ha vissuto più di un aborto spontaneo, con tutto il dolore fisico e psicologico che ciò comporta, io sostengo che finché non si agisce per rendere il sistema ospedaliero un posto più accogliente per le donne (e non solo per quanto riguarda la maternità, ma il dolore cronico, il riconoscimento dei sintomi delle malattie…), troppe delle vesti che oggi vengono stracciate per 'quelle povere donne lasciate sole ad abortire' sono puramente ideologiche e strumentali.

Ancora una volta delle donne non importa davvero, quel che conta è controllarne il corpo, dimenticando che è sacro anch’esso, quanto quello del piccolo che porta in grembo. Sono i supporti socio-economici alle donne e alle famiglie che diminuiscono il numero di aborti, è l’accompagnamento personale a rendere possibile un cambio di rotta, non è rendere più difficile, doloroso e penoso l’accesso all’Ivg. Quello è soltanto un aggiungere dolore a dolore, senza rispetto per le donne, che sono senza ombra di dubbio le uniche a cui stia realmente a cuore la creatura che hanno in grembo: nessuno, nessuno ha il diritto di pensare di avere a cuore il bene di quei piccoli più delle loro stesse madri.

Sociologa, presidente di 'Donne per la Chiesa'

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