Aquanto pare, l’ansia di voler trarre lezioni generali da ogni elezione locale porta a costruire castelli di sabbia che poi, puntualmente, crollano alla tappa successiva. La Sardegna di Alessandra Todde non ha “trainato” l’Abruzzo che resta di Marco Marsilio, l’Abruzzo che non manda a casa la destra non ha già scritto a tavolino il risultato della Basilicata e le Europee saranno altra cosa ancora. L’unico filo rosso che non conosce sconfessione, dalle politiche del 2022 a oggi, è il crollo inarrestabile della partecipazione al voto. Abruzzo e Sardegna non hanno raggiunto il tragico picco negativo di Lombardia e Lazio nel 2023, ma sta diventando strutturale il dato per cui un cittadino su due resta a casa, indifferente a competizioni che reputa inutili, evidentemente. E se in prima battuta i partiti sembravano spiazzati dall’astensionismo, oggi invece vi hanno preso le misure: si può dire che, con il 50% dell’elettorato che diserta le urne, vince le elezioni chi organizza meglio le truppe, tiene tutti dentro, non perde pezzi e ne strappa qualcuno (anche piccolo) all’altro campo.
Nella stagione dell’apatia partecipativa più o meno comprensibile i calcoli aritmetici degli artigiani del consenso valgono più dei “mood” che il sistema mediatico sostiene periodicamente di aver intercettato. Dunque le considerazioni post-voto sull’Abruzzo non possono che essere generali, semplici e prudenti. Giorgia Meloni consolida la propria leadership nel centrodestra dopo l’autogol sardo, dovuto anche alla sua smania, a quanto pare frenata, di «dare le carte». Forza Italia e Antonio Tajani ritrovano verve e godono, evidentemente, della scelta dei partiti terzopolisti di aggregarsi al centrosinistra. Il Pd e Elly Schlein ricevono il “premio” per aver unito una coalizione ampia, opzione sempre gradita dagli elettori dem. Opzione che però continua a non piacere per nulla agli elettori M5s, formatisi con il ghigno di Beppe Grillo che irride la proposta di collaborazione di Pier Luigi Bersani. I pentastellati sono tentati di difendersi dal cattivo risultato abruzzese imputandolo al campo «troppo largo», ma in Sardegna, senza Calenda e Renzi, pur esprimendo la votatissima neogovernatrice Todde, non è andata meglio. Proprio il partito di Giuseppe Conte esce malandato dalle due ultime elezioni regionali. Insieme alla Lega di Matteo Salvini, in discesa verso il ruolo di terzo partito della coalizione. I numeri dicono che dal 2019 a oggi, in Abruzzo, il Carroccio è passata dal 27,5% con 165mila voti al 7,5% con 43.800 voti, M5s da 118mila voti (19,7%) a 40.600 (7% tondo). E se nel 2022, alle elezioni nazionali, il Carroccio si era già ridimensionato all'8,2% con poco più di 50mila preferenze, i pentastellati ancora surfavano poco sotto il 20% e ben al di sopra delle 100mila preferenze. Analoga tendenza si è registrata in Sardegna poche settimane fa: la Lega piegata a un deludente 3,7% (mentre cinque anni prima aveva guidato il centrodestra verso la vittoria), M5s inchiodato al 7,8% mentre alle politiche del 2022, con il 22%, aveva conteso la palma di primo partito a Fdi.
Sono i dati di una crisi che attanaglia gli ex alleati gialloverdi, che più pagano, nei rispettivi campi, la difficoltà a giocare di squadra e non in solitaria. Ma mentre il Carroccio, nonostante la leadership a strappi di Salvini, non abbandona la trentennale cultura coalizionale del centrodestra, M5s non riesce a sciogliere un nodo vitale: provare a governare sui territori, e in prospettiva nel Paese, pagando il prezzo di un’alleanza; oppure limitarsi a fare il “pieno”, in splendida autonomia, nei voti di opinione. Guardando a breve termine, il fatto che i due (ex?) partiti antisistema si stiano rivelando sofferenti a coalizioni e alleanze rappresenta un problema e un’insidia sia per Giorgia Meloni sia per Elly Schlein. Prima nell’imminente sfida di aprile in Basilicata. E poi durante la campagna elettorale per le Europee di giugno. Con un sistema puramente proporzionale, e con l'elemento delle preferenze ampiamente attenuato dalle macrocircoscrizioni, Salvini e Conte, vicepremier e premier insieme appena 5 anni fa, potrebbero trovarsi a giocare il loro personale “tutto per tutto”. Con ripercussioni sui rispettivi campi politici.