Ringrazio il professor Vogel per l’attenzione che ha dedicato al mio editoriale del 31 marzo 2020 e per il tono pacato e gentile con cui ha scritto la riflessione, che precede in questa stessa pagina la mia. E colgo l’occasione di dialogo, che il direttore Tarquinio mi offre, per chiarire alcuni punti di quel mio articolo che possono dar luogo a equivoci. Una premessa. Il mestiere dello scienziato sociale, il mio mestiere, consiste nel cercare di spiegare alcuni fatti (ad esempio: la diversità nei confronti della valutazione del debito pubblico) partendo da ipotesi interpretative. Le ipotesi sono buone se aiutano a spiegare i fatti. Quel mio testo è un breve commento e non certo il tentativo di individuare un vincitore in una sorta di gara etica tra Paesi nordici e Paesi meridiani, e mi pare di aver espresso problematicità riguardo entrambi i lati del confronto. Innanzitutto, il professore mette in discussione la scelta di partire dalla semantica della parola tedesca Schuld. L’italiano e le lingue neolatine hanno due parole per dire 'colpa' e 'debito', il tedesco una sola.
Questo semplice fatto lessicale può dire nulla o può dire qualcosa. Io credo che dica qualcosa. Come ho scritto nel mio testo, «la cultura è ciò che ti rimane dentro quando hai dimenticato tutti i libri che hai letto» e «il linguaggio è anche il custode dell’archeologia dei concetti sepolti dalle civiltà». Le parole portano tracce delle nostre culture, tracce non intenzionali e tacite. Le parole sono sempre importanti, anche quando ci siamo dimenticati la loro etimologia. Al tempo stesso, l’analisi delle parole è solo inizio di discorso, non approdo finale. Partire dalla polivalenza della parola Schuld – una tesi non mia, ma di Nietzsche e, oggi, di Agamben – è un espediente retorico per cercare di imbastire un primo ragionamento, nello spazio consentito da un editoriale. In particolare mostrare alcune ragioni delle difficoltà (ben note) nel dialogo sul tema del debito tra Nord e Sud Europa, nella consapevolezza che quelle da me evidenziate colgono soltanto alcune aspetti del discorso. Riguardo le perplessità sollevate dal professore Vogel sulla 'cultura della colpa' comparata con la 'cultura della vergogna', sono partito dalle teorie di Ruth Benedict ('La spada e il crisantemo'’) e di altri studiosi (E. R. Dobbs, ad esempio), che hanno studiato le 'culture della vergogna', dove un dato comportamento è condannato solo se è 'visto' dagli altri. I popoli mediterranei (oltre quelli asiatici) sono essenzialmente legati a 'culture della vergogna'.
La Bibbia – e in un certo senso anche il mondo greco classico (si pensi al mito di Edipo) – ha sviluppato pure una 'cultura della colpa', che nel cristianesimo ha continuato il suo cammino soprattutto nel mondo nordico (un ruolo importante l’ha avuto il monachesimo britannico e irlandese e la sua gestione privata delle penitenze, su cui si è scritto anche su queste pagine). Inoltre, la radice agostiniana del protestantesimo (Lutero – cosa ben nota – era un monaco agostiniano) ha giocato un suo ruolo nello sviluppo della 'cultura della colpa'. Ciò non significa dire che nel mondo cattolico non ci sia la dimensione della colpa e del peccato (sarebbe assurdo), ma solo mostrare, anche qui, alcune differenze culturali, nei confronti del 'debito', in particolare del debito pubblico. Si tratta sempre di analisi idealtipiche (per citare Weber), con i pregi e i limiti di tali analisi. Infine, faccio davvero fatica a cogliere nel mio ragionamento gli elementi per far affermare al professor Vogel: «Sono perplesso sul parallelismo implicitamente delineato da Bruni tra il nazismo e il dissenso odierno sull’importanza del debito sovrano».
Avevo scritto: «Dopo fascismi e nazismi abbiamo saputo dimenticare parole pessime e avvelenate, ancora molto fresche nel sangue del corpo dei popoli europei, e abbiamo generato il capolavoro della Comunità europea». Qui c’era un invito rivolto a tutti, e il parallelismo implicito, se c’è, si troverebbe comunque tra 'nazismi e fascismi' e certo dibattito odierno, e tutti sappiamo in quale Paese è nato il fascismo: l’Italia. Ma, chiaramente, il senso di quel brano è sottolineare l’importanza di dimenticare tutti quel passato che non aiuta oggi, soprattutto un passato ancora prossimo fatto di reciproche diffidenze, e generare una Europa nuova dopo questa grave crisi. Su questo mi piace constatare che siamo in piena sintonia, e ciò è quanto conta davvero.