Zygmunt Bauman ci ha aiutato a leggere la realtà contemporanea, il mondo in cui viviamo, come un grande scenario 'liquido', in cui l’orizzonte è a breve termine, l’obiettivo è viaggiare leggeri, il riferimento è l’individuo, l’incertezza e la paura la fanno da padroni. L’orizzonte dell’uomo contemporaneo è oggi la città. La Conferenza degli episcopati latinoamericani all’assemblea di Aparecida del 2007 affermava: «La fede ci insegna che Dio vive nella città, in mezzo alle sue gioie, ai suoi desideri e alle sue speranze, come anche in mezzo ai suoi dolori e alle sue sofferenze».
Luogo degli uomini e di Dio, intreccio di bene e di male, la città è contraddittoria, percorsa da fremiti differenti, abitata da sentimenti a volte contrapposti. Ben lo vediamo in questi giorni di grande freddo, quando l’indifferenza di vaste realtà anonime è sfidata da un moto di solidarietà trasversale, che vede migliaia di cittadini portare coperte, sacchi a pelo, pasti e bevande caldi, accoglienza alle vite 'scartate', ai tanti senza fissa dimora per cui 'non c’è posto' né riparo. In tanti si sono dati da fare in questi giorni per supplire alla scarsità di risposte pubbliche.
In tanti hanno sentito di appartenere a una comunità di destino, hanno scelto di vedere gli invisibili e di essere più 'cittadini' e solidali, realizzando quanto l’arcivescovo Jorge Mario Bergoglio aveva scritto qualche anno fa: «Se partiamo dalla constatazione che l’anti-città cresce con lo sguardo e che la più grande esclusione consiste nel non riuscire neanche a 'vedere' l’escluso – quello che dorme per strada non viene visto come persona, ma come parte della sporcizia e dell’abbandono del paesaggio urbano, della cultura dello scarto, del rifiuto – la città umana cresce con lo sguardo che 'vede' l’altro come concittadino. In questo senso, lo sguardo della fede è fermento per uno sguardo civico» (Dio nella città, Ed. San Paolo).
La città di oggi è il laboratorio di una nuova società, quella del millennio che avanza, di una globalizzazione che fa perno sull’urbanità. È un mondo complesso, quello che si va disegnando. In cui convivenza ed esclusione si affrontano, in cui massificazione e solitudine si sfidano. In cui si tratta di garantire una tenuta sociale originale, non più cementata dalle classi sociali o dalle ideologie. In cui occorre tessere legami di condivisione e di speranza tra soggetti più distanti e diversi che in passato. In cui è necessario gettare ponti verso una 'periferia diffusa' che non è solo la cintura urbana delle grandi metropoli. Nelle tante periferie di Roma, che conosco meglio, sono scomparsi i corpi intermedi, la gente è sola. «Chi orienta più la gente di periferia in un mondo complicato?'», si è chiesto Andrea Riccardi. È un lavoro lungo, non facile. Ma penso a quanto scriveva il giovane David Maria Turoldo nel luglio 1946: «Dio si è incarnato e abita fra noi. È un errore pensare che Dio è lontano, che abita in un’altra città: di città ce n’è una sola; egli dimora fra queste mura.
È qui, dentro questa periferia che è come un cerchio di fuoco dove si azzuffano angeli e uomini. La città è il luogo della nostra battaglia, […] è proprio questo contendere il terreno a Satana, qui dove egli aveva piantato la sua roccaforte, il mio piacere di stare in città, di essere la città, di sentirmi una sola cosa con essa». Se è vero che le città sono «un cerchio di fuoco dove si azzuffano angeli e uomini» – e lo vediamo ogni giorno – dobbiamo imparare a sentire la forza di bene che la nostra società sa esprimere, le risorse di idee e di solidarietà che sanno farsi strada, ed emergere, per contrastare il buio e tradursi in vicinanza concreta, in tessuto, in «voglia di comunità» (per citare ancora Bauman). In questo mondo, diventato di città e periferie, il compito che abbiamo davanti a noi è quello di essere un po’ più angeli e un po’ meno banali.