Ansa
Con gli occhi puntati sul quotidiano triste conteggio di morti, ospedalizzati e nuovi positivi, e ora sull’arrivo dei vaccini – il primo passo, si spera, per uscire da questo lungo incubo – risulta per tutti difficile alzare lo sguardo e cercare di immaginare gli scenari strategici del prossimo anno. Ma è uno sforzo che va in ogni caso fatto, dato che questa pandemia non ha certo fermato i mutamenti geopolitici globali. E Il primo dato che sembra emergere è proprio che il Covid-19 non stia producendo mutamenti significativi nelle dinamiche in atto da tempo: continua infatti la massiccia redistribuzione del potere all’interno del sistema internazionale, che rischia anzi di essere accelerata da questa pandemia. Un mutamento dei rapporti di forza e della centralità delle aree geopolitiche che impongono soprattutto alle due potenze principali, Cina e Stati Uniti, di formulare visioni strategiche coerenti e convincenti.
Lo scenario principale resta quello dell’Asia- Pacifico, con il ruolo mondiale giocato dalla Cina e le sfide ad esse connesse, in particolare quella per la supremazia globale fra Washington e Pechino. Sul futuro del gigante cinese vi sono ormai due scuole di pensiero consolidate: i sinoottimisti, convinti della sua continua ascesa a prima potenza mondiale, capace sia di superare i problemi interni sia di riuscire ad aggregare attorno a sé un nuovo polo regionale asiatico, marginalizzando nel tempo l’importanza degli Stati Uniti nel continente euroasiatico. E che quindi vi sia tutto da guadagnare da una nostra crescente integrazione nel sistema economico-commerciale cinese. Opposti a loro i sino-pessimisti che ritengono che Pechino dovrà nel prossimo futuro affrontare tensioni politico- sociali ed economico-finanziarie interne pericolosissime. E che credono che a livello regionale, i tanti paesi ostili alla Cina e vicini agli Stati Uniti (dal Giappone a Taiwan, dall’India al Vietnam, all’Australia, solo per citarne i principali), riusciranno a contenerne la spinta egemonizzante. Per questi ultimi, lo straordinario successo della Cina degli ultimi decenni è dovuto soprattutto a clamorosi errori strategici dell’Occidente e che quindi, con diverse scelte politiche, sia possibile ridurne l’ascesa. Entrambe queste visioni sembrano eccessive, e figlie di un pregiudizio ideologico – vuoi in positivo vuoi in negativo.
Ma su entrambe peseranno certamente le scelte della nuova presidenza statunitense. È difficile che il presidente Biden possa ribaltare completamente la politica di scontro avviata dal predecessore Trump, per tornare a una prospettiva di cooperazione, legata a un’idea di globalizzazione che sembra ormai tramontata. Egli dovrà tuttavia cercare di rimediare alle tante scelte infauste e controproducenti della pessima passata amministrazione, in particolare restaurare la fiducia negli Stati Uniti come alleato sicuro e affidabile, che non abbandona i propri “amici” nel momento del bisogno. È passata quasi inosservata la recente creazione nel Pacifico della più grande area di libero scambio del mondo, voluta dalla Cina e resa possibile solo dall’autolesionismo di Trump, che ha perseguito la strada retorica e populista del protezionismo delle merci americane. Lasciando campo libero a Pechino.
A un livello globale più generale, Biden dovrà mostrare subito, nel corso del nuovo anno, se egli voglia perseguire la strada della restaurazione – come se il ciclone Trump non si fosse abbattuto sulle relazioni Usa con il mondo – o del ri-orientamento, recuperando il rapporto deterioratosi con l’Europa senza rifugiarsi in una visione del mondo ormai tramontata. Il che significa ripristinare il ruolo degli Stati Uniti nel mondo e riaffermare i legami con i propri alleati in modo nuovo. Ma soprattutto implica adottare scelte meno erratiche e occasionali nei rapporti con la Russia, che certo non miglioreranno con il nuovo presidente, affrontare il problema Nato (e Turchia nella Nato) e mettere nuovamente mano alla “questione mediorientale”. Partiamo da quest’ultima, vero snodo obbligato di ogni presidente Usa: per quanto da tempo ogni nuovo occupante la Casa Bianca prometta di non farsi invischiare dalle insidiose sabbie dei deserti mediorientali, i problemi della regione rimangono centrali. Biden ha dinanzi a sé una scelta non facile: cercare di rispettare la promessa di tornare all’accordo nucleare siglato da Obama con l’Iran nel 2015 e denunciato unilateralmente da Trump nel 2018 oppure privilegiare la strada degli “Accordi di Abramo”, cercando possibilmente di renderla smaccatamente meno favorevole a Israele e meno anti-iraniana nella sua architettura. Rientrare nell’accordo nucleare è in verità molto complesso, dato che occorrerebbe smontare la rete di sanzioni che colpiscono duramente l’economia iraniana (e per farlo occorre l’appoggio di un Congresso a oggi molto riluttante); ma soprattutto anni di demonizzazione da parte di Trump, di Israele e delle monarchie arabe del Golfo hanno enormemente indebolito le fazioni di potere moderate di Teheran, a tutto vantaggio dei gruppi più radicali e anti-occidentali. Mentre gli Accordi Abramo, nati per celebrare ufficialmente l’alleanza strategica fra Israele e le monarchie arabe contro l’Iran e i suoi alleati, difficilmente potranno evolvere in uno strumento utile a ridurre le tensioni nella regione.
I file su Russia e Nato sono strettamente intrecciati, collegati soprattutto dal “cosa fare” con la Turchia e il suo presidente autocrate. Ankara è il problema che rischia di minare l’Alleanza Atlantica, ma è assolutamente chiaro a Biden che non possiamo certo “regalare” la Turchia alla Russia, soprattutto in un momento in cui il Mediterraneo è tornato ad avere una sua centralità, per quanto legata soprattutto a crisi politiche, guerre civili e flussi migratori incontrollati. I margini di azione appaiono anche in questo caso ridotti, dato che l’avventurismo e l’autoritarismo di Erdogan vanno in qualche modo limitati, ma senza spingerlo – per reazione – a rafforzare i legami di convenienza, in una sorta di ricattatoria “politica dei due forni”. Quanto a Mosca, il lento declino di Putin, unito alla crisi economica e ai costi delle avventure militari russe nell’Est Europa e nel Mediterraneo, possono spingere quel paese a legarsi ancora di più ai progetti infrastrutturali e alle visioni politiche di Pechino.
Ma importante sarà recuperare per Biden il filo dei rapporti con l’Europa, per quanto l’Europa possa ormai sembrare geopoliticamente marginale sulla scena globale. Se Trump aveva palesemente puntato sulla demolizione dell’Unione Europea, a vantaggio della variegata compagnia di populisti, aspiranti autocrati e demagoghi che ha dato ben triste spettacolo in questi anni sul proscenio politico europeo, Biden deve velocemente capire che riproporre il legame euro-atlantico tradizionale, senza offrire nuovi contenuti e una nuova visione che corrisponda al mutato contesto, rischia di ripristinare solo una formula vuota e formale. In fondo, anche Obama aveva mostrato un disinteresse verso il Vecchio Continente celato solo dai suoi modi eleganti. Ma con la Cina che cerca sempre più di compattare a suo vantaggio la piattaforma continentale euroasiatica, Washington deve trovare nuove vie. E riallacciare al contempo legami con un’Europa che ha ripreso iniziativa politica ed economica all’interno e all’esterno dell’Unione.
Sullo sfondo la presa d’atto, resa più evidente dalle ferite inferteci dalla pandemia, che la globalizzazione come l’abbiamo esaltata per decenni è sostanzialmente fallita, avendo offerto prospettive ai ricchi a scapito di un numero crescente di condannati alla povertà o alla marginalizzazione sociale. Se la ricetta proposta dai populisti, legata a un protezionismo vecchio stile e a un nazionalismo egoista, è palesemente controproducente, occorre anche evitare che sia Pechino a proporre un modello diverso, più sfuggente e ben più pericoloso, di globalizzazione. In cui la crescita economica si accompagna all’autoritarismo e alla rinuncia a quei valori di libertà e di rispetto dei diritti umani che – nonostante tutti i nostri limiti ed errori – sono il lascito migliore delle democrazie occidentale al XXI secolo.